Duecentodieci anni fa nasceva Edgar Allan Poe.
Francis Ford Coppola, invece, ha da poco compiuto ottant’anni.
A parte l’allinearsi delle cifre, entrambi condividono un legame profondo che si può scoprire solo guardando il film Twixt (2011), ultimo tassello della recente filmografia coppoliana, ed una delle opere più personali del regista.
Edgar Poe veniva al mondo il 19 gennaio 1809, a Boston, nel Massachussets.
Era il secondogenito dell’attrice Elizabeth Arnold, di origine irlandese, e dell’attore David Poe, originario di Baltimora. Quest’ultimo, affetto da problemi di alcolismo, nel giro di qualche mese avrebbe abbandonato la famiglia ed il palcoscenico, forse morendo in povertà due anni dopo.
Anche Elizabeth spirò nel 1811, all’età di ventiquattro anni, divorata dalla tubercolosi. Edgar non aveva ancora festeggiato il terzo compleanno.
La morte materna lo avrebbe segnato per sempre.
Il destino volle che i tre fratellini – Henry, Edgar, e la piccola Rosalie – fossero separati.
Edgar fu accolto da un mercante di tabacco di Richmond, John Allan, e da sua moglie Frances, una coppia senza figli. Ma non sarebbe mai stato adottato legalmente, e col passare degli anni, i rapporti tra lui e il patrigno si sarebbero guastati a causa di varie inconciliabilità. Quando John Allan morì nel 1834, non lasciò al figlio adottivo nessuna eredità. Edgar dovette accontentarsi del cognome, anteposto malvolentieri (e non sempre) a quello originario, nella composizione che oggi ci suona tanto familiare: Edgar Allan Poe.
Sull’opera di Poe grava tuttora la deformazione mitografica che i suoi detrattori, e poi gli stessi ammiratori europei (tra i quali, per primo, il poeta francese Charles Baudelaire), hanno storicamente consumato in preda al disgusto o all’ebbrezza. Non c’è da stupirsi se dell’autore si sia tramandata un’immagine parecchio falsata: “maudit” ante litteram, alcolista, oppiomane, necrofilo, cantore di ogni sublime perversità.
Eppure Edgar A. Poe era anzitutto uno scienziato della letteratura, un raffinato teorico della composizione, sostenitore di una totale lucidità creativa, per di più dotato di sottile umorismo e di una perpetua razionalità. Senza dubbio la sua vita fu costellata di dolori, di delusioni e di morte, ma egli non rinunciò mai ai rigidi capisaldi del suo sistema, e se l’esistenza gli fissò sul volto un’ombra malinconica, essa fu sempre rischiarata dall’ampiezza luminosa della fronte.
Ecco perché la sintesi che Francis Ford Coppola compie nel film Twixt ci è parsa la più convincente, o per meglio dire, la più motivata. Il grande regista statunitense, al quale dobbiamo capolavori come Il Padrino (1972) e Apocalypse Now (1979), nutre un affetto particolare e sincero per questo scrittore, di cui ha saputo recuperare i tratti umani, oltre che ideologici.
In genere, il cinema ha scelto di privilegiare l’estetica funebre di Poe, a discapito dei toni e degli argomenti caratteristici della restante produzione letteraria. Se i racconti del terrore sono stati trasposti con maggiore frequenza – ad esempio da Jean Epstein (La caduta della casa Usher, 1927), Edgar G. Ulmer (The Black Cat, 1934), Lew Landers (The Raven, 1936) e Roger Corman (I vivi e i morti, 1960; Il pozzo e il pendolo, 1961; La maschera della morte rossa, 1964) – minore fortuna è invece toccata alle intricate trame d’investigazione con protagonista il geniale e cervellotico Auguste Dupin. Anche i racconti del grottesco, tolta qualche discreta eccezione, sono rimasti per lo più ignoti al grande pubblico cinematografico.
L’oscura fama del bostoniano è dunque servita, il più delle volte, ad attrarre spettatori in sala con la vaga promessa di assistere a carnevalate perverse e raccapriccianti. Talora è persino bastato inserire un infinitesimale riferimento a Poe, nel titolo o nella locandina, perché il successo al botteghino fosse assicurato.
A farne le spese, in base alle varie esigenze artistiche e commerciali, è stato il principio di fedeltà ai testi, che non di rado si è scelto di sacrificare. Ne è scaturita una serie di pastiches e la totale marginalizzazione delle dinamiche letterarie originali.
Ma ancor meno si è deciso di rappresentare la vita dell’autore statunitense. In effetti Poe è stato impiegato raramente come personaggio di qualche pellicola, malgrado un esordio che lasciasse ben sperare: già nel 1909 David W. Griffith, prossimo a divenire un’autorità della regia cinematografica mondiale, girò un cortometraggio muto con protagonista il bostoniano, a cento anni di distanza dalla sua nascita.
In questo caso si scelse di rappresentare, condensandoli, due eventi fondamentali nella vita di Poe: la composizione della celeberrima poesia Il Corvo (The Raven) e la morte dell’amatissima Virginia (in realtà spirata due anni dopo la pubblicazione del poemetto). Ad interpretare quest’ultima fu la stessa moglie di Griffith, Linda Arvidson, mentre nei panni di Poe vi fu Herbert Yost (conosciuto come Barry O’Moore). Curiosamente, il secondo nome dell’autore, Allan, comparve scritto male nel titolo del cortometraggio, dove divenne “Allen”.
L’errore derivò forse dalla fretta che la casa di produzione, la Biograph, aveva nel portare tutto a termine entro lo scadere del centenario.
Coppola riprende la pallida fisionomia di Poe e la inserisce al centro di Twixt, senza mutilarla del suo pensiero critico.
Protagonista della storia è Hall Baltimore (Val Kilmer), un romanziere in declino, il cui cognome suona già di per sé eloquente: Edgar Allan Poe morì proprio Baltimora, nel 1849.
Hall si sposta di cittadina in cittadina per promuovere l’ultima opera scritta, un romanzo fantasy-horror di scarso valore. La sua ispirazione di un tempo sembra essersi ormai dileguata, e Hall s’affanna inutilmente a trovare un’idea valida con cui riabilitarsi. Deve però fare i conti con un retroscena disastroso: l’editore gli sta col fiato sul collo, la moglie lo ricatta, e l’ombra minacciosa dell’alcolismo cresce alimentata dal ricordo della figlia morta.
Ma ecco Edgar comparirgli in sogno per guidarlo, lanterna alla mano, attraverso una serie di scenari notturni. Il percorso segue un chiaro solco catabasico: onirismo dopo onirismo, Poe aiuta il romanziere a redigere un nuovo libro, ottenendo, infine, di riconciliarlo coi fantasmi del passato.
Il topos dell’incoronazione poetica ricorre spesso nella storia della letteratura. Ne fanno uso autori greci e latini, come Esiodo nella Teogonia, oppure Ennio negli Annales; ma il riferimento più diretto, in questo caso, è senza dubbio Dante con Virgilio. Sebbene gli avvenimenti della Commedia non ricadano sotto la giurisdizione del sogno, il viaggio ultraterreno compiuto da Dante è, in primo luogo, una raffinata elaborazione del lutto.
A indossare la maschera di Poe, modellata da una triste gentilezza, troviamo Ben Chaplin, attore britannico efficacemente calato nel ruolo sia sul piano fisico che spirituale. Le sue battute, lontane da qualsiasi furore, emanano garbo e forza malinconica, scongiurando i rischi dello stereotipo o della caricatura.
Il rapporto tra Ben Chaplin e Val Kilmer sorregge l’intero film: memorabile l’analisi che entrambi conducono della prassi poetica, delle sue leggi e delle sue tecniche rigorose, in un’elegante discussione di teoria letteraria, sorta al tavolo di una spettrale locanda.
Echi letterari e cinematografici giocano a farsi riconoscere senza che la narrazione ne esca soffocata. Spiccano Baudelaire, Stoker e King. Ma è naturalmente l’immaginario di Poe a tenere le fila. Immancabili Ligeia, Berenice e Madeline Usher, tutte impersonate dall’incantevole Elle Fanning (qui appena tredicenne).
Emerge poi un altro grande spunto visivo, mai messo in scena da altri: l’orologio a sette quadranti, descritto nel racconto Il diavolo nella torre, uno dei Tales of Grotesque and Arabesque. Con un’importante differenza: se nel testo di Poe lo scompaginarsi del meccanismo interno al campanile esplode solo col finale, qui il caos è piuttosto condizione necessaria a marcare sin dall’inizio l’alterità del contesto narrativo.
Ne scaturisce un film disomogeneo, di gusto bizzarro e sperimentale, la cui estetica fatta di desaturazioni e di green screen ricorda (fin troppo) quella milleriana di Sin City e The Spirit.
I suoi pregi vanno però altrettanto riconosciuti, a partire dall’atmosfera straniata, surreale, vicina a quella di Twin Peaks: la straordinaria voce narrante di Tom Waits, dalle sonorità grezze e quasi rancide, colloca istantaneamente la vicenda nella tipica periferia americana, teatro di orrori nascosti. Ma ad apparire rilevante è soprattutto la componente autobiografica. Al di là delle occasionali autocitazioni (da Rusty il selvaggio a Dracula di Bram Stoker), l’intera storia rappresenta un viaggio doloroso che il regista statunitense compie in cerca della propria redenzione personale.
Come il protagonista, vinto dal senso di colpa, anche Coppola deve infatti perdonarsi e superare un lutto ventennale: quello per il figlio Gian Carlo, morto tragicamente nel 1986 durante una gita in barca.
Emanuele Arciprete
TWIXT
VOTO: 6½/10
Anno: 2011
Regia, soggetto e sceneggiatura: Francis Ford Coppola
Paese di produzione: Stati Uniti d’America
Fotografia: Mihai Malaimare Jr.
Montaggio: Kevin Bailey, Glen Scantlebury, Robert Schafer
Musiche: Dan Deacon, Osvaldo Golijov
Costumi: Marjorie Bowers
Scenografie: Jimmy DiMarcellis
Interpreti: Val Kilmer, Bruce Dern, Ben Chaplin, Elle Fanning
Genere: Horror