Martin Eden è un film che invade la mente e il cuore.
La sua forza sta nello germogliarti dentro.
Per afferrare il senso di questa premessa, è necessario attingere ad una dimensione fortemente personale, ed occorre, quanto meno all’inizio, rinunciare alla consueta forma austera delle recensioni, a favore di un tono più aneddotico e familiare. Sarò dunque sincero: fino a poco tempo fa, non avevo mai letto il romanzo da cui proviene la storia. Di Jack London serbavo un ricordo sfumato, legato all’infanzia e al rito serale condiviso con mia madre, quando, prima di addormentarmi, la ascoltavo leggermi Zanna Bianca ad alta voce.
Così, tra i meriti del film, c’è quello di avermi spinto tra le braccia di London; ed è stato come tornare a casa. Benché spesso avvenga il contrario, e lo spettatore vada al cinema avendo già letto il libro, ho vissuto un approccio esattamente inverso. Uscendo dalla sala, proprio come il giovane Martin, non pensavo ad altro se non al momento in cui avrei potuto immergermi nel flusso di parole, dove riassaporare l’esperienza appena conclusa. In un batter d’occhio mi sono procurato una copia del romanzo, le cui pagine, con la complicità della mia predisposizione spirituale, hanno esercitato qualcosa che non sperimentavo da tempo, almeno non a quel livello d’intensità: ho cioè provato una totale immedesimazione nei panni del protagonista, ben al di là della solita empatia che ogni grande autore è capace di procurare. Il merito deriva, in buona parte, dal profondo legame esistente tra lo scrittore e la propria creatura: com’è noto, Martin Eden rappresenta un alter ego letterario di Jack London. Solidarizzare con uno significa identificarsi con l’altro.
E le somiglianze, a tal proposito, appaiono assai eloquenti, poiché le esperienze di Jack riecheggiano in quelle fittizie di Martin. Andando con ordine, entrambi ricevono il battesimo della fatica ad undici anni. Il primo deve contribuire al sostentamento economico della famiglia; al secondo tocca sopravvivere dopo la morte dei genitori. Da quel momento, trascorrono l’adolescenza a lavorare. Jack intraprende la vita del marinaio, ma anche quella del vagabondo, e persino del cercatore d’oro, viaggiando su navi da pesca o su treni presi senza biglietto, tra i mari del Sud e i vasti paesaggi dell’America settentrionale. Martin s’imbarca a sua volta, seguendo le stesse rotte percorse da Jack. Appena ventenni, di ritorno a San Francisco, i due maturano una grande ambizione: vogliono diventare scrittori. Le circostanze sono diverse, ma il proposito è identico. E basta poco perché l’idea assorba interamente le loro energie. Se non fosse per la forza di volontà che li sorregge, finirebbero entrambi al manicomio. Persino il tempo dedicato allo studio quotidiano si equivale: diciannove ore trascorse sui libri, a cui seguono cinque ore di sonno rigorosamente cronometrate. Eppure i frutti di quell’impegno tardano ad arrivare. La vita dei ragazzi viene segnata dai sacrifici e dalla frequente privazione degli oggetti più cari (esemplare il caso della bicicletta e degli abiti dati in pegno). L’amore costituisce un altro punto di contatto: quello che Martin nutre per Ruth, figlia dell’alta borghesia locale, corrisponde all’amore platonico nutrito da Jack per Mable Applegarth, sorella dell’amico Edward, anche lei appartenente ad una ricca famiglia di San Francisco. Fino alla svolta improvvisa, quando alcuni editori accettano di pubblicare i testi ricevuti, che riscuotono un successo repentino. Il riscatto giunge però troppo tardi: Martin, irrimediabilmente nauseato dal mondo e dall’amore, ha nel frattempo rinunciato alla scrittura, e manca poco perché rinunci anche alla vita. Il corso fulmineo del suo estro creativo, peraltro legato al fiore dell’età, ricorda la parabola folgorante di un Arthur Rimbaud. Non così Jack, il quale continuerà a impegnarsi sino alla morte avvenuta per uremia nel 1916 (la teoria del suicidio, influenzata dal destino del suo personaggio, non troverà mai riscontro). Ed ecco una prima differenza, a cui se ne aggiungono altre: in particolare, se da un lato Martin si professa più volte individualista e antisocialista, pur con qualche generoso cedimento, Jack invece si avvicina molto presto al socialismo, già nel 1895, e crea la figura di Martin appositamente per criticare i picchi nefasti toccati dall’individualismo. Circa quest’ultimo proposito, di fronte al trionfo ottenuto dal romanzo, non di rado sfociato nell’esaltazione retorica del suo protagonista, l’autore scherzerà dicendo di non essere stato davvero compreso. Ma di ciò, sempre ironicamente, incolperà se stesso.
Ebbene, io non dico di essermi sentito Martin Eden in carne ed ossa (non potrei mai, per ovvie inconciliabilità biografiche); dico piuttosto di aver provato alcuni slanci passionali, insieme ad alcune disillusioni, se non identiche, comunque vicinissime a quelle del personaggio. Riconoscere perciò molti miei stati d’animo, e molti miei pensieri, prima sullo schermo e poi sulla carta, mi ha commosso e stordito. Alludo a certe frustrazioni che lo scrittore esordiente saggia a proprie spese; ma alludo anche, in generale, allo sconforto dell’uomo contemporaneo, la cui sublime idealità viene quotidianamente offesa dall’esistenza.
Martin Eden, in entrambe le versioni, l’una cartacea e l’altra cinematografica, esce ammantato di un’aura crepuscolare che ne segna tragicamente il destino; un fato non più predeterminato dalla trascendenza, come accadeva nella grecità, bensì dall’ipocrisia sociale. Poco importa che il giovane abbia talento, e che soprattutto disponga di un’inesauribile forza di volontà con cui elevarsi al di sopra del ceto originario. Poiché la vera saggezza è fonte di dolore, e conoscere la vita, individuarne il funzionamento meccanico e smascherarne la fredda vacuità, significa distaccarsene irrimediabilmente. A tal riguardo, si presti attenzione all’ultimo verbo utilizzato da London, nella chiusura del romanzo, tanto formidabile quanto raggelante: That much he knew. He had fallen into darkness. And at the instant he knew, he ceased to know. (“Questo soltanto sapeva. Era piombato nelle tenebre. E nel momento stesso in cui lo seppe, smise di sapere.”) Il verbo impiegato è per l’appunto to know, ossia conoscere, ma anche sapere. La sfumatura di significato, tra la coscienza intellettuale e quella immediata dei sensi, solleva un’ambiguità non facile da sciogliere in italiano. Eppure è indubitabile si tratti sempre di conoscenza, appresa fulmineamente in punto di morte; com’è altrettanto indubitabile che sia stata sempre la consapevolezza della frattura ad esasperare il protagonista.
Martin appare dunque un eroe votato alla sconfitta, un orgoglioso individualista contrario a qualunque compromesso, un esteta innamorato di quella stessa Bellezza che vede sfiorire intorno a sé: in altre parole, un decadente. La sua voce risuona come il canto del cigno romantico. Pur leggendo il mondo attraverso l’evoluzionismo di Spencer, e improntando lo stile autoriale su di un feroce realismo, la mente di Martin si abbandona incessantemente ad una serie di sogni, d’immagini e speranze destinate a soccombere sotto il peso della loro grandiosità. La sconfitta di quegli ideali coincide allora con la morte della scrittura, e infine, con il suicidio dell’autore stesso, il quale, per riuscire ad affogarsi in mare aperto, deve ancora una volta ricorrere ad uno slancio assoluto della volontà: braccia, gambe e polmoni vorrebbero salvarlo e riportarlo a galla, ma la mente ottiene d’ingannare la biologia del corpo, prevalendo sull’istinto di conservazione.
Una tale sovrabbondanza di volontà, dote essenziale di Martin, pone il personaggio al livello dei superuomini dannunziani, i quali, in modo simile, si arenano puntualmente nella noia e nella disperazione, isolandosi dalla società o cedendo al fascino estetico del suicidio: come Andrea Sperelli, o ancor più come Giorgio Aurispa, Martin vede man mano sfumare il proprio ideale aristocratico, contrapposto alla volgare insensatezza della vita. Egli non ha più nulla in cui identificarsi: la borghesia, dapprima idolatrata, ora lo disgusta più che mai, mentre la grettezza intellettuale dei proletari gli ricorda la buca fangosa da cui proviene.
L’approdo finale è l’autodistruzione; purché, beninteso, l’arte intervenga ancora una volta a fare da mediatrice. Potremmo parlare, a tal riguardo, di una vera e propria circolarità poetica. L’idea di uccidersi viene fornita a Martin da una poesia di Swimburne – lo stesso poeta nel quale egli incappa all’inizio della storia, quando, gironzolando a casa di Ruth, s’imbatte in alcuni libri poggiati su di un tavolo, uno dei quali gli verrà prestato dalla ragazza: Swimburne, appunto. Se dunque la risoluzione di elevarsi culturalmente scaturisce proprio da lì, è giusto o quanto meno simmetrico che ne provenga anche l’ultima fatale iniziativa (per non parlare della curiosa coincidenza che vede Swimburne morire lo stesso anno – il 1909 – in cui si ha la pubblicazione integrale di Martin Eden, come se tra il poeta inglese e il personaggio del romanzo corresse uno strano riflesso di morte). Sono dunque superuomini fallimentari, questi, che hanno il vizio di equivocarsi, che vivono di contrasti feroci, e che sdoppiano la propria personalità, le proprie ambizioni e i propri idoli, ma che sostanzialmente non sanno domare la realtà di cui si credono padroni. La loro potenza si traduce in una paralisi nevrotica. Ed è impossibile non cogliere, in tutto ciò, la lezione del Vate: Jack London non ignora chi sia D’Annunzio, anzi lo fa addirittura citare per nome dallo stesso Martin (all’interno del capitolo XXVII); né ignora la filosofia nietzschiana, che molti intellettuali, ai primi del Novecento, storpiano e saccheggiano per giustificare il cumulo di pulsioni narcisiste a cui vanno soggetti: i veri bersagli del romanzo Martin Eden.
Il film, diretto da Pietro Marcello, recupera alcuni caratteri fondamentali del romanzo, e allo stesso tempo se ne discosta. A cominciare dal dettaglio più appariscente, ossia l’ambientazione, non più statunitense, bensì napoletana. La scelta di cambiare città potrebbe forse sembrare pretestuosa, ma in realtà permette al regista di impreziosire la narrazione, disseminando nel montaggio vari filmati di repertorio risalenti al secolo scorso (e forniti, ad esempio, dalla Cineteca di Bologna): feste dei lavoratori, anziani sorridenti per strada, marinai imbarcati cogli occhi velati dalla nostalgia, ed altre schegge di povertà dal sapore autentico. In questo modo, Pietro Marcello valorizza appieno la propria formazione documentaristica, situando la storia in un contesto, come quello partenopeo, eternamente connotato dalla ricchezza e dalla miseria, nonché dall’irrinunciabile presenza del mare, vera fonte battesimale di Martin Eden, alfa e omega del racconto, patria e sepolcro del marinaio. Ciò istituisce una chiara analogia tra i due ambienti, quello descritto da Jack London nel suo romanzo, e il mondo sommerso di Napoli, in una forma di rivendicazione volta a sottolineare come le contraddizioni sociali si ripetano e si assomiglino ovunque. Ma i filmati di repertorio aiutano anche a scandire la narrazione, in base al principio del montaggio analogico: così, quando viene mostrato un veliero solcare liberamente le onde, si allude alla vita di Martin, in viaggio con la stessa andatura spedita; oppure, quando un’altra nave cola a picco, è la vita di Martin a naufragare.
Il formato di ripresa, in Super 16mm, conferisce all’immagine una consistenza granulosa e tangibile, che facilita gli innesti di finte sequenze storiche in mezzo a quelle vere. Il risultato è un mosaico temporale, dove convivono oggetti, musiche e suggestioni tratte da epoche differenti: il televisore, la macchina da scrivere, il dittafono, il vascello, l’automobile, il duello combattuto con la spada, le camicie nere del Fascismo. Tutti questi elementi formano un quadro sospeso in cui la disparità, la guerra e il dolore si rivelano essere eterni attributi dell’esistenza umana.
Luca Marinelli, nel ruolo di Martin Eden, dona al personaggio spirito e sangue, coscienza e fisicità. La sua interpretazione vale da sola l’intero film: nessuno stupore se abbia vinto la Coppa Volpi, in occasione del Festival di Venezia 2019. Tre gli stadi dell’evoluzione a cui va incontro il protagonista. Dapprima vediamo Martin avanzare con impaccio tra le stanze arredate della villa Orsini, dove incontra per la prima volta Ruth (Jessica Cressy), qui chiamata Elena, forse in omaggio al Piacere di D’Annunzio, o forse perché quel nome, col suo retaggio mitologico, echeggia il tradimento per antonomasia. In presenza della ragazza, Marinelli sfoggia una mimica dolce, inebetita, quasi riverberando la gestualità e la voce di un Massimo Troisi. Dopodiché assistiamo alla prima metamorfosi del protagonista: Martin acquista sicurezza, diviene più audace, e quindi decide di impegnarsi nella scrittura, senza però ottenere la convinta approvazione della donna che ama. Infine, crollato il sogno d’amore e morto suicida l’amico Brissenden (Carlo Cecchi), abbiamo l’ultimo stadio, quasi patologico, con un Martin ridotto a un relitto di se stesso, apatico e instabile, dai capelli unti e i denti guasti, ormai abitatore di ambienti sfarzosi, simile ad un esteta decaduto. Purtroppo, il passaggio dalla seconda alla terza fase soffre di una cesura troppo netta. Mancando cioè un mutamento graduale, l’interpretazione di Marinelli rischia di apparire eccessivamente sanguigna; ma è un problema di scrittura, e non di certo attoriale.
Un’ulteriore perplessità riguarda la formazione intellettuale di Martin. La profondità dei suoi studi non riceve infatti l’attenzione che meriterebbe, col risultato che, sul palco di un comizio o a cena dalla fidanzata, quando Martin parla di politica o di società, sembra quasi ripetere concetti in modo confuso e pappagallesco, citando le frasi udite da altri. Eppure, nel romanzo, giunge un momento in cui Martin diviene un pensatore di tutto rispetto, assolutamente padrone degli argomenti studiati, spesso molto più dei suoi stessi interlocutori; ma questa sensazione, nel corso del film, sfugge allo spettatore.
Con il terzo atto, emergono anche i limiti di Jessica Cressy. La quale, fin quando deve aderire alla prima versione di Elena – eterea, moderata, succube della moralità borghese – si presta bene al ruolo, essendo anch’ella dotata di una bellezza diafana e sfuggente. Quando invece le cose si complicano, e tocca cacciar fuori una certa spudoratezza, la compenetrazione svanisce. Né si comprende perché lei sola, tra tutti i membri della famiglia Orsini, parli con accento francese. Al di là del fatto che l’attrice sia parigina, il dettaglio, piuttosto evidente, non viene mai chiarito.
In compenso, brillano i personaggi secondari.
Carmen Pommella è una Maria umile e materna, che accoglie Martin presso la propria casa, venendone infine ripagata; Carlo Cecchi è Russ Brindessen, un anziano poeta che, a causa della malattia, guarda alla vita con elegante cinismo; Marco Leonardi interpreta Bernardo, l’odioso cognato di Martin, dall’animo taccagno e la parlantina siciliana.
Due parole sul finale. Marcelli sceglie di adoperare un taglio surreale, asciutto, senza scadere nel melodrammatico. Vediamo Martin Eden giacere assorto sulla spiaggia, con lo sguardo rivolto verso il mare; alcuni immigrati africani se ne stanno seduti in disparte. Ed ecco sopraggiungere un nano, il quale dichiara a gran voce che è scoppiata la guerra. La sequenza ha un che di felliniano. Quale guerra sia scoppiata precisamente, non è dato saperlo. Anche questo passaggio rientra dunque nell’astrattezza temporale del film: tanto potrebbe essere la Prima, quanto la Seconda Guerra Mondiale, sebbene poi rischino di restare irrisolti altri dettagli, come la presenza degli immigrati, o la ronda di alcuni fascisti che prendono a dileggiare il nano. Martin non tradisce alcuna emozione. Ha da poco smesso di inseguire un’ombra di se stesso, un rimasuglio del passato tornato in superficie – quel tempo che non potrà mai più essere vissuto. Pacatamente, egli si dirige verso l’acqua. Quindi entra in mare, ed inizia a nuotare senza fermarsi.
Cosa manca? In primis, l’ispirazione fatale tratta dalla poesia di Swimburne, di cui ho già parlato; ma anche, soprattutto, un qualsiasi riferimento all’immensa forza di volontà del personaggio, che gli consente di vincere (o di perdere, a seconda dei punti di vista) l’ennesima sfida. Martin vuole morire. La sua scelta è un’ultima forma di autoaffermazione.
Cosa rimane? Una scena intensa, commovente. Ed un’eco tanto letteraria quanto cinematografica: la morte di Ashenbach, sulla spiaggia veneziana, contemplando l’Assoluto – quell’Assoluto che Martin Eden ha già scoperto non esistere più.
Emanuele Arciprete
MARTIN EDEN
VOTO: 7 ½ /10
Anno: 2019
Regia: Pietro Marcello
Soggetto: Jack London
Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Pietro Marcello
Paese di produzione: Italia
Fotografia: Alessandro Abate, Francesco Di Giacomo
Montaggio: Aline Hervé, Fabrizio Federico
Musiche: Marco Messina, Sacha Ricci
Costumi: Andrea Cavalletto
Scenografia: Luca Servino
Trucco: Dorotea Wiedermann
Interpreti: Luca Marinelli, Jessica Cressy, Carlo Cecchi, Carmen Pommella, Vincenzo Nemolato, Marco Leonardi, Autilia Ranieri, Denise Sardisco
Genere: Drammatico