Due torri merlate e diseguali, d’aspetto lugubre e bizzarro (il pensiero corre subito a Hill House), affiancano la facciata principale di una villa, in realtà un vero e proprio castelletto gotico: è la cosiddetta Villa dei Laghi, denominata anche solo la Tenuta, che sorge nel pieno della vegetazione, in prossimità di alcuni specchi d’acqua. Una zona protetta, recintata, i cui boschi rientrano a loro volta in un perimetro di sicurezza con un solo ingresso debitamente sorvegliato. Ed è lo scenario quasi atemporale – il nido, appunto, a cui si riferisce The Nest, il titolo del film – dove Elena (Francesca Cavallin) conduce il suo rigido esperimento educativo, crescendo il figlioletto paraplegico, Samuel (un pallido e malinconico Justin Korovkin), al riparo dal resto del mondo. Insieme alla donna convive una servitù incerta e spaurita, benché sempre incline a nutrire una strana forma di riconoscenza nei confronti della padrona di casa; mentre indispensabile appare la complicità di un dottore (Maurizio Lombardi), tanto ambiguo quanto disumano. L’educazione impartita dalla madre al figlio è severa espressione di un amore fortemente claustrofobico, ostinato a celebrare vari rituali famigliari (compleanni, lezioni di pianoforte, cene e offici religiosi), nell’intento di conferire normalità e ordinarietà al tempo quotidiano.
Eppure, inevitabilmente, un oscuro senso di straniamento ammanta l’atmosfera: Elena si serve del dottore per mantenere in modo coatto il controllo sulla dimora, e addirittura ne sfrutta le conoscenze mediche per favorire (e forse causare) la malattia del figlio; ma è come se un segreto ancor più terribile accomunasse gli altri personaggi all’infuori di Samuel. Qualcosa riguardante il passato ed il mondo esterno, entrambi da dimenticare o, in nessun caso, da rievocare in presenza del ragazzino, intorno al quale ruota ogni singola circostanza della tenuta nobiliare. “Tutto ciò che abbiamo è di Samuel”, recita una delle regole vigenti nella casa. E lui, Samuel, costretto sulla sedia a rotelle, cresce solitario e infelice, come un animale recluso che non abbia simili a cui relazionarsi, né altri luoghi da esplorare.
Finché un’epifania femminile, bruna e dagli occhi azzurri, non oltrepassa i confini della Tenuta: una fanciulla nel pieno dell’adolescenza, il cui nome è Denise (Ginevra Francesconi). Elena è costretta ad accoglierla malvolentieri; Samuel invece ne resta ammaliato, ottenendone l’amicizia e l’alleanza, con effetti rivoluzionari sulla propria intraprendenza. Denise lo trascina dentro nuove esperienze mai provate sinora, e gli dona un calore sincero, lontano non solo dagli eccessi del legame materno, ma anche dall’affetto timoroso delle cameriere o da quello artificioso degli ospiti occasionali. Il ragazzino scopre così nuovi generi musicali (il rock dei Pixies), imbraccia per la prima volta un fucile, riceve il primo bacio e, soprattutto, assapora la libertà. Un sapore dolce e allettante che lo spinge verso i confini proibiti del regolamento domestico e dello stesso giardino.
Scoppia un inevitabile putiferio nella Villa, insieme al quale cresce l’ostilità di Elena. All’inizio la madre tratta Denise con disprezzo; poi, spinta dalle circostanze sempre meno favorevoli, incoraggia l’unione della ragazza col figlio. Beninteso: non prima di una radicale rieducazione a base di elettroshock, allo scopo di confezionare una sposina muta e quanto mai accondiscendente. Denise e Samuel riescono a fuggire, abbandonando Elena ormai vittima del doloroso delirio; e solo allora si scopre l’orrenda verità: nel resto del mondo è da tempo scoppiata l’apocalisse, e i non morti hanno invaso le campagne.
La conclusione ribalta, in apparenza, le premesse iniziali del film: la Villa, a lungo sembrata un soffocante luogo di prigionia, si rivela una paradossale roccaforte contrapposta ad una diversa forma di orrore. In un ricchissimo gioco di citazioni, se inizialmente percepiamo la raffinata lezione di The Others (2001, A. Amenábar), la scoperta finale ci proietta invece nell’epopea zombie di Romero. Con una sostanziale differenza: mentre di solito la terrificante consapevolezza dell’apocalisse (ancor più terrificante poiché del tutto immotivata) funge da motore dell’azione narrativa, spingendo i sopravvissuti a individuare un riparo sicuro dove rifugiarsi, in The Nest abbiamo un procedimento inverso, e tale consapevolezza raggiunge il protagonista e lo spettatore soltanto nell’epilogo (benché alcuni indizi si trovino sparsi nel corso della storia). Ma abbiamo anche un effettivo corto circuito, siccome entrambi i luoghi, rispettivamente di salvezza e di perdizione, appaiono contaminati e pericolosi.
Ebbene, stavolta l’orrore esiste per davvero, non è uno spauracchio alimentato per giustificare l’isolamento, come può sembrare per gran parte della narrazione: il modello è dunque l’opposto di The Village (2004, M. N. Shyamalan). Il limite non si scopre falsato da un accordo o da una convenzione, poiché è assolutamente reale, oltre il quale si scatena l’impossibile. Ad essere falsato è, semmai, l’impedimento che costringe Samuel nel suo nido: il male fisico, non così inguaribile come si vuol far credere, e la commedia recitata dagli altri personaggi intorno a lui. Si finge cioè che la mostruosità non esista, tenendola a bada oltre le mura, senza mai citarla o nominarla. Nel frattempo s’imbastisce un intero teatrino all’insegna del grottesco, affinché il ragazzo non sappia la verità. Dentro la Villa chiunque deve fingere che l’apocalisse non sia mai avvenuta, come se il mondo esterno non esistesse affatto. Inevitabile il paragone con The Truman Show (1998, P. Weir) e, perché no, con l’Enrico IV di Pirandello.
Ma quale orrore, tra i due, è più nocivo dell’altro? L’inferno umano, domestico e familiare, o quello sovrannaturale? Denise, consapevole dei pericoli, decide lo stesso di tornare all’aperto, fornendoci una chiara risposta a riguardo. Ormai l’orrore dilaga ovunque; nondimeno dentro la Villa esso gira travestito da amore, il che è pure peggio. Il rapporto, tra le due forme di orrore, è di stretta correlazione: l’uno scatena o legittima l’altro. E forse, a livello simbolico, l’orrore familiare, con le sue distorsioni e repressioni, preesiste all’elemento fantastico. In un certo qual modo, l’interrogativo rimanda al film La Maschera della Morte Rossa (1964), tratto dal celebre racconto di E. A. Poe. Rispetto alla base letteraria, la versione cinematografica, diretta da Roger Corman, si caratterizza per la concezione nichilista del Male: mentre Poe parla di un castello dedito all’ozio, in un gioioso e variopinto baccanale (frattanto che il mondo, come sappiamo, viene divorato dalla peste), nel film, al contrario, il maniero del principe Prospero (Vincent Prince) appare come un luogo satanico, un inferno sceso in terra dove si susseguono sevizie e iniquità – ossia una realtà moralmente peggiore di quella esterna su cui incombe l’epidemia. Il pericolo s’insidia proprio nel punto in cui spereremmo di non trovarlo, corrompendo qualunque presunzione di Eden rifondato. Non a caso il Paradiso Perduto di Milton viene esplicitamente chiamato in causa fin dalle prime scene di The Nest, quando Samuel riceve in regalo una copia del grande poema inglese. Assistiamo a qualcosa di simile nel film 28 giorni dopo (2002, D. Boyle): anche qui abbiamo un mondo (per esattezza, l’Inghilterra) al collasso, a causa di un morbo sconosciuto simile alla rabbia; e la villa amministrata dai militari, i quali a loro volta sognano di rifondare una nuova civiltà, pare fortemente imparentata con la Tenuta di The Nest.
La presenza del Paradiso Perduto, specialmente per quel che riguarda la figura di Samuel, evidenzia il percorso di crescita (e di apparente caduta) compiuto dal personaggio nel suo tragico allontanamento dalla figura materna. Citando Eric Draven (da Il Corvo, 1994, A. Proyas), potremmo dire: “Madre è l’altro nome di Dio sulle labbra e sui cuori dei nostri figli.” Elena, infatti, dinanzi al figlioletto, non è nient’altro che Dio: pone divieti, stabilisce confini, e protegge senza sosta la propria creatura, negandole tuttavia qualsiasi arbitrio. La fuga dall’Eden, sotto la guida di Denise (una novella Eva, molto più sveglia dell’originale biblico, forse per questo più vicina alla rivale Lilith), porta Samuel/Adamo alla conoscenza dell’assurda verità. E la conoscenza, come insegna Eschilo, è sempre dolore. Crescere significa vivere una metamorfosi. Si attiva così un rimando all’ambiguità dell’infanzia: a fronte di una morale prestabilita e, non di rado, bigotta e puritana come sembra essere quella di Elena, la nascita delle pulsioni erotiche appare a dir poco sconveniente. Inevitabile non ricordare, allora, le due giovanissime figure, misteriose e assolutamente perturbanti, di cui parla Henry James nel suo affascinante romanzo, Il giro di vite (1898), una dibattuta storia di fantasmi trasposta dal regista Jack Clayton: il film in questione è The Innocents (da noi Suspense, 1961), con un’eccezionale Deborah Kerr nei panni della tormentata (e quasi certamente repressa) istitutrice.
Il tema dell’asserragliamento, tipico di molto cinema horror – da L’ultimo uomo della Terra (1964, U. Ragona) al recente caso di The Walking Dead –, si coniuga ad atmosfere morbose e decadenti. Il merito è di una formidabile scenografia. Stando a quanto dichiarato dallo stesso regista di The Nest, il trentottenne Roberto De Feo, l’ambientazione interna è frutto di un intenso lavoro condotto dagli scenografi e dall’intera troupe. Il Castello dei Laghi, nato come riserva di caccia del re Vittorio Emanuele II, adesso di proprietà della Regione Piemonte, versava in condizioni pietose prima che vi si svolgessero le riprese, e ha pertanto richiesto tre settimane di allestimento. Ma si può dire che la resa finale abbia pienamente compensato la fatica. La Villa gode, infatti, di un’identità estetica inconfondibile, con una massima cura rivolta ai dettagli: al suo interno si trovano camerette foderate d’una fastosa tappezzeria, ampie biblioteche, vertiginose scale a chiocciola, saloni decorati con piatti geometrici e foschi ritratti di famiglia, e persino una mansarda ingombra di mostruosi manichini. All’oppressione e alla perenne ostilità degli ambienti contribuisce un efficace lavoro alla fotografia, spesso mirata a sovrastare i personaggi, con dominanti rosse, gialle o verdastre, talora viranti verso l’acido e lo spettrale. Un set, dunque, pienamente internazionale, nel quale abbondano le suggestioni visive. The Nest si colloca, a pieno diritto, dentro la scia di case da incubo, ricorrenti nella letteratura e nel cinema del terrore, poiché perfette rappresentazioni di microcosmi isolati e tenebrosi: da La scala a chiocciola (1946, R. Siodmak) a Psycho (A. Hitchcock), da Gli Invasati (1963, R. Wise) a Operazione Paura (1966, M. Bava), da Suspiria (1978, D. Argento) a Crimson Peak (2015, G. Del Toro).
Di ottimo livello il contributo attoriale.
Francesca Cavallin, austera tanto nell’acconciatura quanto nel vestiario, somiglia ad una delle Mogli di The Handmaid’s Tale, anch’esse vestite di un azzurro sobrio e delicato, e anch’esse, come lei, sia vittime che carnefici. Pur annunciando progetti di stampo altruista, come la rifondazione di una nuova società dove trarre in salvo i sopravvissuti dell’Apocalisse, Elena non rinuncia mai al ruolo dell’aguzzino, nonostante lo sbando e la disperazione si manifestino in lei progressivamente, accompagnati da istinti autolesionisti e da una latente pulsione incestuosa. Nel secondo caso, basti notare che, all’arrivo della giovane Denise, irresistibile oggetto del desiderio di Samuel, la madre reagisce riscoprendo – e istantaneamente negando a se stessa – il piacere di truccarsi, quasi a dover fronteggiare un’improvvisa avversaria in amore.
Accanto ad Elena, spicca la figura del mad doctor, lo scienziato votato al male, qui di chiara ispirazione nazista, al quale Maurizio Lombardi, cogli occhi vitrei e penetranti, si presta alla perfezione: la sua peculiare maschera, capace di alternare freddezza e perversità, ricorda quella di Peter Lorre nel film Amore Folle (1935, K. Freund). Per una forma di opportunistica riconoscenza verso Elena, che lo ha incluso nella cerchia di eletti scampati al disastro, il dottore non ha problemi ad agire come un mostro in piena regola, quale egli stesso si definisce, privo di qualunque scrupolo o moralità professionale. Si consideri, ad esempio, la scena in cui la piccola Denise viene torturata sulle note di Rossini: un evidente omaggio ad Arancia Meccanica (1971) di Stanley Kubrick.
Al suo ufficiale esordio registico, Roberto De Feo firma un’opera coraggiosa, che vive di grandi ispirazioni, e che, soprattutto, restituisce forza al nostro cinema di genere: l’ambientazione italiana rivendica l’appartenenza ad una precisa area geografica dove il cinema horror appare da tempo trascurato, se non proprio decaduto. Ecco perché, al di là dei meriti artistici, The Nest si rivela un film necessario. Mai come adesso l’orrore torna con dignità e intelligenza a inquietare il pubblico in sala.
Emanuele Arciprete
THE NEST – IL NIDO
VOTO: 7 ½ /10
Anno: 2019
Regia e soggetto: Roberto De Feo
Sceneggiatura: Roberto De Feo, Margherita Ferri, Lucio Besana
Paese di produzione: Italia
Fotografia: Emanuele Pasquet
Montaggio: Luca Gasparini
Musiche: Teo Teardo
Costumi: Cristina Audisio
Scenografia: Francesca Bocca
Trucco: Sara Ianigro Menichetti
Interpreti: Francesca Cavallin, Justin Korovkin, Maurizio Lombardi, Ginevra Francesconi