L’intervista
Nella critica musicale assume sempre maggiore rilevanza l’intervista, secondo i mal pensanti, allo scopo di fare parlare gli artisti e non fare assumere responsabilità al giornalista, ma si tratta di un’affermazione dettata da una forma di invidia di una schiera di critici di testate che, spesso immeritatamente, non godono di accessi a istituzioni e ad uffici stampa di musicisti che predispongano interviste viso a viso, telefoniche o a ½ e—mail.
In linea con questa opinione sembra essere la definizione caustica di Leo Longanesi: «L’intervista è un articolo rubato», come se si trattasse di appropriarsi in un proprio pezzo di dichiarazioni, frasi, concetti riferiti dall’intervistato.
In verità chiunque si sia cimentato con questa forma di informazione giornalistica sa bene come non solo il giornalista non si impossessi di affermazioni dell’intervistato, ma, al contrario, quest’ultimo si serva spesso delle domande per costruire una propria comunicazione, magari da spendere in una successiva conferenza o da affidare a un comunicato stampa.
Per non dire di un corto circuito comunicativo divenuto celebre e dovuto a Gigi Marzullo: «Si faccia una domanda e si dia una risposta», eccellente stratagemma per fare fronte alla carenza di idee.
Sul fronte opposto, quello degli estimatori, troviamo l’affermazione di Alberto Papuzzi: «L’intervista è la forma di comunicazione giornalistica più tecnica, il caso più limpido in cui la notizia è ciò che ne fa il giornalista»
Una buona intervista deve obbedire a regole severe, ma, perché l’articolo possa avere successo, occorrono qualità altre che hanno origine nelle capacità comunicative, maieutiche dell’intervistatore, nel sapere “fare dire” all’intervistato frasi che suscitino interesse e, non ultimo, che “diano un titolo” al pezzo.
Furio Colombo, giornalista di grande esperienza e intellettuale di rango preferisce definire l’intervista con enunciazioni dialettiche: «L’intervista è lo strumento giornalistico più arrischiato e imperfetto; dovrebbe avere il ruolo che ha la chirurgia per la medicina: qualcosa a cui si ricorre se non ci sono altre soluzioni (…) L’intervista ha una origine nobile, filosofica e letteraria, ha la sua radice in tutta la catena di dialoghi che hanno segnato la storia del sapere»
Intervista è un termine che riprende l’anglosassone interview, ovvero vedersi reciproco, etimologia che conserva valore anche in caso di colloqui telefonici o messaggistici.
Ma se è la lingua di Shakespeare a fornire il nome alla forma di comunicazione, la storia occidentale offre esempi molto precedenti che risalgono a Socrate e a Platone, i cui stessi scritti filosofici, in senso lato, sono costruiti su una struttura di “intervista”, di dialogo.
Potremmo assegnare la paternità della forma a Critone, amico di Socrate che riporta l’ultimo dialogo con il suo maestro condannato a morte.
Sarà solo nel 1831 e in America, che un’intervista troverà posto sulle pagine di un quotidiano.
L’intervista arriva in Italia agli inizi del ‘900 grazie ad Alberto Bergamini, direttore del quotidiano Il Giornale d’Italia; egli è anche ritenuto l’inventore della terza pagina culturale e lo fa riferendo di musica, nel 1901, dando cronaca, recensione e analisi di “Francesca da Rimini” di Zandonai, su libretto di D’annunzio, in scena al teatro Costanzi di Roma.
La prima intervista pubblicata su Il Giornale d’Italia del 19 novembre 1901, è all’aviatore Santos Dumont, breve e incisiva e letteralmente telegrafica:
«Ci telegrafano da Montecarlo, 18 Nov: Ho parlato lungamente con Santos Dumont che venne qui per i preparativi del suo nuovo e ardito cimento Mi spiegò il nuovo tragitto che egli si propone di compiere…»
Le regole d’oro dell’intervista sono state codificate nel secondo dopoguerra e oggi meriterebbero una revisione, ma rappresentano in buona misura delle linee guida utili:
1) Lo stile è colto e le interviste sono destinate ad un lettore di élite.
2) Quasi sempre è aperta da un’introduzione che presenta l’intervistato e spesso cita la situazione, il contesto in cui è avvenuto l’incontro.
3) Il giornalista evita proprie opinioni e commenti e si preoccupa di fare intendere o di affermarlo, che viene riportato fedelmente un dialogo.
4) L’intervistato è sempre trattato con rispetto ed ossequio, e a lui ci si rivolge in terza persona di cortesia, l’uso di una seconda persona confidenziale farebbe sentire il lettore escluso da un dialogo tra amici del quale si troverebbe imbarazzato testimone.
5) Il rapporto tra intervistatore e intervistato non deve apparire di parità, ad eccezione di dialoghi letterari tra due o più personaggi di pari ed elevato rango.
6) La forma indiretta è spesso soppiantata da quella diretta e si usano le virgolette agli estremi del periodo dell’intervistato, mentre si introducono i trattini per incisi di commento.
7) Le domande devono essere brevi per lasciare spazio alle risposte e non lasciare trasparire l’elaborazione retorica che è stata necessaria all’intervistatore per ottenere la risposta desiderata. Le domande non necessariamente devono essere riprodotte fedelmente, a patto che la risposta non assuma significati stravolti.
8) L’ottenimento di un’intervista deve apparire al lettore come un grande privilegio che il giornalista condivide con lui.
9) Il rispetto per la privacy deve essere assoluto, anche a costo di glissare su confidenze dell’intervistato.
Negli anni tra le due Guerre l’intervista inizialmente sembra conquistare spazio, ma il ventennio fascista dove non le censuri, le trasforma in propaganda, mentre la nascita della radio apre nuove prospettive.
La catastrofica Seconda guerra mondiale impone una rinascita e una franca dimostrazione di democrazia con la nascita di nuove testate soprattutto di periodici di approfondimento che ospitano di buon grado interviste.
Il mezzo televisivo, a partire dalla fine degli anni ’50, prima accoglie le interviste all’interno dei telegiornali, poi, dagli anni ’80 ospita quella che è una forma di intervista a più voci: il talk show.
Ma la crescente diffusione produce l’inflazione del genere, così che Lietta Tornabuoni afferma: «La natura non spontanea e non esclusivamente informativa, non dialettica, ma coatta, concordata e patteggiata che l’intervista ha assunto nel giornalismo italiano non riguarda soltanto personaggi della politica, ma anche scrittori, registi, attori. In campo non politico, l’intervista diventa spesso una forma di pubblicità non pagata. Così un genere interessante ha perduto oggi parte della sua credibilità. Le eccezioni non mancano, e soprattutto nelle pagine culturali o di inchiesta, s’incontrano ancora esempi di buone e godibili interviste»
Claudio Sabelli Fioretti analizza il fascino del genere: «l’intervista “esercita un fascino particolare agli occhi del lettore perché lo mette a tu per tu con persone che, nella maggioranza dei casi, molto difficilmente avrebbe la possibilità di conoscere”
Sui giornali la forma di intervista più apprezzata è quella diretta, ovvero quella in cui domande e risposte si susseguono, evidenziate e distinte tra loro dalla grafica, lo stile o il font di carattere.
In genere i quesiti del giornalista sono in grassetto mentre le risposte sono in carattere normale e racchiuse tra virgolette a sergente « »
La forma diretta è senza dubbio più immediata e marca la distinzione dei ruoli di intervistato e intervistatore.
Si parla di intervista indiretta quando un giornalista inserisce il virgolettato dell’interlocutore senza domande dirette, si dice anche “a scorrere” e perciò mancano i punti domanda e il botta e risposta, concedendo più spazio al giornalista nelle parole del quale si intende fare ritrovare un qualcosa di altro e di ampio che l’intervistato avrebbe detto.
È particolarmente efficace quando si sia in presenza di elaborazioni a posteriori e quando di voglia ripartire nel corpo del pezzo passaggi di particolare rilevanza per attacco, focus e chiusa.
Non sono riportate serie di domande e di risposte, ma un flusso di informazioni in cui compaiono riflessioni del giornalista e frasi dell’intervistato, fino al punto che questi può confermare quanto l’intervistatore abbia anticipato ed è questo un modello alto e letterario cui le migliori firme si ispirano.
Le cosiddette interviste-ritratto possono essere redatte in questa forma e riescono ad essere persino più incisive di quelle in forma diretta, come il giornalista del Corriere della Sera Beppe Severgnini ha dimostrato trasformando in intervista un incontro con la cantante Madonna nel 1998.
“Ci sono donne celebri che di fronte a un intervistatore amano apparire indifese, come Naomi Campbell; oppure caute, come Deborah Compagnoni; o amichevolmente battagliere, come Emma Thompson. Quasi tutte, più o meno inconsapevolmente, cercano complicità (esattamente come fanno gli uomini). Madonna no. Lei ascolta, sospesa, stende il bel collo, sorride e sibila risposte. Un cobra languido, addolorato per il destino della prossima vittima, ma non troppo.
Domando come sta la figlia, Maria Lourdes. Si addolcisce: «Oh, lei, benissimo. Troppa eccitazione, però, andando di qua e di là. Sono io che dormo poco»
Chiedo se viaggia senza la bambina. Si adombra: «Mai. Senza di lei non vado da nessuna parte» racconta, mostrando un finto orrore sorridente, che la piccola nei parchi continua a baciare bambini sconosciuti Essere mamma – dicono i bene informati – ha cambiato Madonna. (…)
Le chiedo se ci sono cose di cui si sia pentita. Sorride di nuovo: «Sono sempre stata onesta con me stesa».
Insisto: c’è qualcosa che vorrebbe non aver fatto? Smette di sorridere: «Si cambia, si cresce, si guarda indietro…» (continua)
La forma indiretta permette di costruire un’intervista che qualcuno si spinge a definire falsa, mentre più correttamente andrebbe detta “estratta”, perché derivata da una conversazione pubblica, da una conferenza stampa o da un’intervista concessa ad una platea di giornalisti e in cui deontologia impone di non accostare domande non proprie a risposte ascoltate.
Esiste, inoltre la cosiddetta “intervista furba”, che consiste nel riassemblare domande e risposte riferibile ad un passato più o meno recente o a interviste raccolte da colleghi della stessa testata.
È un espediente cui talvolta si ricorre per l’indisponibilità dell’intervistato; non si tratta di informazioni alterate, tuttalpiù di traslazioni temporali, ma non è raro che il personaggio reticente a rilasciare intervisti risulti poi ben felice di leggerne una “furba”, perché quasi sempre questa raccoglie il meglio di una o più conversazioni e, se il giornalista è di talento, ricolloca un intelligente inviluppo in un contesto attualizzato che torna di vantaggio per personaggio.
Riportiamo un esempio di intervista diretta, che rivela persino quel carattere profetico che l’intervistato attribuisce alla musica nell’evoluzione della società.
Titolo
Barenboim al San Carlo: «La musica rivela sempre il domani»
Il maestro argentino impegnato in un doppio recital sabato e domenica.
Sottotitolo
«Note e suoni hanno anticipato rivoluzioni e comunismo. E ora l’imbarbarimento. Sono preoccupato per le promesse di Trump intrise di discriminazioni e intolleranza»
«Amo molto Napoli, ma del San Carlo ho un ricordo impresso nella memoria: ero tredicenne, nel 1956, quando vinsi il Concorso Casella, ma proprio per la mia giovanissima età il premio mi fu revocato e sostituito con un riconoscimento speciale, che però non mi dette l’opportunità di suonare su questo prestigioso palco. Ora, 60 anni dopo, festeggerò con un doppio recital il mio 74° compleanno».
A parlare è Daniel Barenboim, il maestro argentino che, per la prima volta al San Carlo, terrà due recital sabato e domenica. Il grande pianista e direttore d’orchestra si cimenterà in musiche di Schubert (suo autore prediletto, Chopin e Liszt).
Maestro cosa ne pensa degli sviluppi politici internazionali dopo l’elezione di Donald Trump in America?
«Il quadro internazionale è, diciamolo con un eufemismo, problematico; la vittoria di Trump negli Usa è espressione di barbarie, le sue promesse elettorali intrise di discriminazione, di intolleranza, di razzismo e la cosa più spaventosa è che le dovrà mantenere come spaventoso e terribile è il fatto che lo abbiano votato in milioni: non ho dubbi, comunque che gli elettori gli chiederanno il mantenimento di quelle promesse di inciviltà»
In «Paralleli e Paradossi» aveva scritto che l’assenza di contrasti seguita alla fine della Guerra Fredda destava in lei spavento. A distanza di qualche anno conferma il suo pensiero?
«L’umanità sta smarrendo i valori del dialogo perché non ci sono più due potenze contrapposte, che però imponevano un confronto, una competizione al bene. Il mondo era bitematico come una forma-sonata, in cui si costruiscono ponti modulanti e non si erigono muri; l’URSS affermava di essere il bene e che gli USA fossero il male, e viceversa; ciascun blocco si preoccupava di migliorare le condizioni di vita dei cittadini per dimostrare la bontà dei rispettivi sistemi politici. Io non sono mai stato un comunista, ma so che il capitalismo non può essere la risposta unica; dopo il crollo del Muro, il trionfalismo dell’Occidente ha fatto fare passi indietro nei valori del rispetto».
E la musica, in mezzo a tanta decadenza, cosa può fare?
«Servendosi di codici non verbali e perciò non filtrati da ipocrisie proprie del linguaggio parlato, la musica ha sempre anticipato i processi storici; l’affermarsi della musica strumentale e la secolarizzazione della stessa ha preceduto la Rivoluzione Francese; il superamento del sistema tonale a favore della dodecafonia, poi, ha anticipato l’avvento del comunismo mentre il populismo, gli egoismi e le xenofobie di oggi sono stati preceduti dall’imbarbarimento della produzione musicale, che si è preoccupata solo di animare le persone, stimolarne “il ventre” e lo ha fatto con la radio e poi con la televisione, con internet e oggi con i social media; io non sono un profeta, ma quanto accade oggi nella società globalizzata, la musica lo rivelava già vent’anni fa. Credo comunque che la musica, come ha sempre fatto, ci dirà in anticipo quale direzione imboccherà l’umanità, non perché la traccerà, ma perché la rivelerà».
Ma se la musica ha tale valenza è lecito domandare come possa aiutare il mondo e come la si possa aiutare noi?
«La soluzione è nell’educazione musicale fin dall’infanzia; 11 anni fa ho fondato a Berlino un asilo musicale, ebbene allo scadere dei 10 anni ho fatto eseguire un follow up per avere una statistica su quanti dei bambini allevati con la musica avessero avuto poi, da adolescenti e da giovani adulti, intrapreso professioni o attività dilettantistiche in qualche modo correlate con la musica. Fui io stesso sorpreso nello scoprire che l’80 % di essi si era dedicato ad uno strumento, al canto, alla composizione, alla musicologia, e sono convinto che il restante 20 % in ogni caso abbia maturato un rapporto più amichevole con la musica seria. Ora sto progettando, e sono a buon punto, la creazione di una scuola primaria musicale. Una nazione deve comprendere che la musica forma cittadini migliori, più rispettosi e solidali, ma tocca poi ai governanti indirizzare al bene le migliori qualità dei cittadini.
18 novembre 2016
Dario Ascoli – Corriere Del Mezzogiorno – Corriere.it
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E dalla stessa firma un’intervista indiretta, a scorrere
Titolo
Accardo, rivelazioni choc «Negli anni Novanta ho subito gravi minacce»
Sottotitolo
Questa sera e domani il virtuoso del violino al San Carlo diretto da Juraj Valcuha «Quando ero direttore del Massimo fui minacciato e me ne andai. Sono tornato»
«Ricevevo telefonate anonime e minacce a qualsiasi ora del giorno e della notte. Il periodo in cui mi fu affidata la direzione musicale del San Carlo (anni ‘90, ndr) fu molto faticoso, ma non per colpa di Napoli, della città o del Teatro».
Così il maestro Salvatore Accardo, napoletano virtuoso del violino e musicista a tutto tondo, ricorda il periodo passato al San Carlo, lo stesso teatro che stasera alle 20.30 e domani alle 18.30, lo vede protagonista insieme con il direttore musicale in carica oggi, Juraj Valcuha. La bacchetta slovacca «sostituisce» il direttore musicale onorario Zubin Mehta, convalescente, e il programma prevede il Concerto n.2 per violino e orchestra di Bartòk, che sarà preceduto da «Danze di Galanta» di Zoltan Kodaly e seguito da un capolavoro senza tempo quale la Sinfonia n.4 di Beethoven.
A proposito dell’esperienza sancarliana il maestro Accardo continua il racconto di quegli anni da direttore musicale:
«Avevo capito che in certi casi si sarebbe dovuto essere disposti a scendere a compromessi: a quel tempo, era così. Le mie scelte artistiche, però, si scontravano con interessi che artistici non erano e probabilmente davano fastidio a qualcuno. Le minacce si estesero persino ai miei cani…».
Ma fu un grave episodio di violenza, protagonista un minore, a rappresentare la goccia che fece traboccare il vaso della sopportazione.
«Sì, un bambino (non posso affermare appartenesse a una di quelle che oggi si chiamano babygang) recapitò un pacco bomba a un mio vicino e amico neurologo, mendico di mio padre, provocandogli gravi mutilazioni con l’esplosione. Decisi che me ne sarei dovuto andar via perché non era possibile vivere così, non dico a Napoli, ma certo non in quel modo. Ma rimuovere questa città dal cuore è stato impossibile, Infatti sono qui».
Lo sguardo del virtuoso verso il futuro dei bambini, dei giovani, vince su tutto.
«La distanza che intercorre tra i pochi ragazzi deviati e la meravigliosa moltitudine di studenti di valore e volenterosi è enorme, ma le fiction – denuncia il maestro – fanno audience mostrando la violenza. Sarebbe utile una nuova narrazione, non edulcorata o parziale, ma incentrata sulle qualità dei giovani napoletani, non solo in campo musicale, indicando una via alla notorietà diversa da quella della cronaca nera». Il maestro parla poi della leggenda che lo vuole predestinato.
«Sì, è vero e non ne ho merito, tuttavia ritengo che chi abbia responsabilità di educatore o di formatore debba dedicarsi ai giovanissimi come se ciascuno di essi fosse un predestinato a grandi cose. Soprattutto al Sud. Sarà il tempo e l’impegno, non gli ostacoli della società, a determinare i futuri».
Sarà per questo che l’Orchestra da Camera Italiana, fondata, guidata e formata da Accardo annovera molti talenti del Sud: «Altro che, è un’orchestra che dall’acuto al grave parla con accento napoletano, ovvero da me al primo contrabbasso Ermanno Calzolari, il secondo Ermanno della mia vita dopo Corsi, che è un vero fratello per me. Il concerto di stasera? Era nato conclude Accardo – in un impeto di entusiasmo mio e di Zubin, direttore musicale onorario del San Carlo, musicista al quale mi lega un’amicizia di oltre mezzo secolo e a cui auguro una pronta guarigione. Valcuha, comunque, è un eccellente direttore e sono felice di collaborare con lui. La mia felicità, però, si completerà quando, con un altro programma, Mehta e io ci esibiremo insieme in questo meraviglioso teatro della città che resta sempre mia».
Ma cosa sarebbe stato Accardo se non fosse Accardo?
«Non ho dubbi, sarei voluto essere Dino Zoff, perché amo il calcio, ma la velocità non è il mio forte, se non con l’archetto».
Dario Ascoli – Corriere Del Mezzogiorno
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Negli esempi riportati, che coinvolgono due grandissime personalità del mondo musicale, osserviamo come l0intervistatorte abbia per così dire indirizzato l’intervistato a esporre opinioni anche extra-musicali, al punto di introdurre l’argomento e farsi interrompere con un’affermazione.
È un espediente comunicativo di grande efficacia, ma da utilizzare con quella chirurgica precisione di cui parla Furio Colombo, cui va aggiunta una buona dose di savoir faire che non ponga l’intervistato in una situazione di costrizione.
Una buona intervista deve essere iniziata con l’interlocutore in condizioni di serena disponibilità, deve proseguire accrescendo lo stato di benessere e deve concludersi lasciandolo nell’attesa di una pubblicazione che, se non gli torni direttamente di vantaggio, ne espanda la platea di interessati.
Accade talvolta che l’intervistato chieda, o addirittura pretenda, di esaminare l’aspetto finale dell’intervista: si tratta di una sgradevolissima prassi che rasenta l’offesa.
Ove il critico non possa garbatamente o meno, declinare l’impegno a intervistare, potrà, a fronte della citazione puntualmente fedele delle risposte, ridurre ragionevolmente lo spazio del pezzo, non mancando di evidenziare ogni eventuale scivolone grammaticale e ogni ineleganza di espressione contenuti nelle risposte virgolettate che, stanti le premesse, è preferibile siano in forma diretta che evidenzi e, perché no, metta a confronto i valori in campo.
L’intervistato può mettere al riparo il proprio operato chiedendo all’interlocutore l’autorizzazione a registrare il colloquio, avendo cura di memorizzare richiesta ed eventuale consenso.
Non è infrequente che un divo dello spettacolo, di fronte a una reazione di fastidio di una istituzione musicale per un’affermazione contenuta in una intervista, si affretti a ritrattare o ad attribuire ad una errata interpretazione o trascrizione del giornalista, quella frase incriminata che con un salto mortale l’intervistato cerca di ribaltare di 180 gradi.
La benevolenza di un committente vale molto di più di una condanna inflitta a un giornalista.
Ha fatto letteratura quello che oggi è noto come il “Caso Gasponi”, dal nome dell’ottimo critico de Il Messaggero, sfortunato protagonista di una iniziale ritrattazione di un’affermazione contenuta in un’intervista, ma stravolta in un sottotitolo a effetto, verosimilmente parto della fantasia di un redattore, che gli è valsa una pena pecuniaria di 3 milioni di euro.
Intervistato il grande direttore Wolfgang Sawallisch, questi riferisce il rammarico per alcuni limiti dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dovuti al poco tempo a disposizione per la concertazione.
Il titolo riporterà: «Sawallisch, allegro ma non troppo»; fin qui tutto pacifico, ma il sommario affonda il coltello:
«L’orchestra di Santa Cecilia non è all’altezza del suo ruolo» e il rimando in prima pagina infligge il colpo di grazia: «A Santa Cecilia non sanno suonare».
La vicenda è datata 1996, ma l’assoluzione definitiva, acquisite anche le deposizioni del maestro, in cui si legge: «Gasponi ha scritto la verità», ovviamente riferito al corpo dell’articolo, in cui quelle frasi non si rinvengono, giunge solo nel 2013, quando il giornalista, con tutti i beni pegnorati e privato ingiustamente di credibilità, viene tardivamente riabilitato.
Nel frattempo, Il Messaggero era riuscito a conciliare la pena abbassandola a “soli” 2,5 milioni di euro. E pensare che raramente a un critico viene corrisposto un compenso per articolo che raggiunga le due cifre decimali!
L’episodio dimostra quanto preziosa sia la regola non scritta che recita che “Un titolo deve contenere frasi che si trovano nel corpo dell’articolo, al più con le necessarie elisioni o la ricostruzione in forma diretta”
Un episodio celebre ha per protagonista un altro celebre e stimato critico e intellettuale, in conflitto, per non farci mancare nulla, con l’altra massima istituzione musicale italiana.
Parliamo del caso Il Teatro alla Scala versus Paolo Isotta.
Di minore entità per le conseguenze, ma efficace come esempio di una cattiva prassi comune è la vicenda che ha coinvolto l’allora critico del Corriere della Sera, letteralmente bandito nel 2013 dal Sovrintendente della Scala Stéphane Lissner, in seguito ad una recensione del 30 gennaio in cui il critico, noto e da molti apprezzato per il linguaggio caustico e per il sarcasmo velenoso, aveva recensito un noto tenore sulla scena scaligera.
Negati gli accrediti, sarà il direttore del Corriere, allora Ferruccio De Bortoli, a impegnarsi a garantire a Paolo Isotta i biglietti che la testata avrebbe regolarmente acquistati in botteghino.
Ma accade anche che un critico venga pubblicamente offeso e addirittura minacciato di “sodomizzazione” nel corso di una conferenza stampa su una produzione di “La Traviata” al Teatro dell’Opera di Roma; l’episodio è tuttora documentato su youtube (https://youtu.be/ysHS95FoAyE )
e ha per protagonista un grandissimo regista e una giornalista di una testata web, la registrazione audio termina con il gesto violento di una guardia del corpo, che strappa il cellulare alla sventurata.
Alla volgarità arrogante, cui nei giorni successivi il regista farà ammenda, risponde con irridente garbo un altro critico prendendo la parola, ricorrendo a una frase presa a prestito proprio dal capolavoro verdiano e quanto mai appropriata al contesto: «Di sprezzo degno se stesso rende chi, pur nell’ira, la donna offende».
Un intervento che istantaneamente riportò un clima di civile conversazione, rivelando la distanza tra l’aggressività di chi offende e la serafica calma di chi stigmatizza.