«Un dramma di grossi fatti emozionali senza poesia» così Giuseppe Giacosa, in una lettera del 23 agosto 1896 a Giulio Ricordi, a proposito di Tosca, in scena al Teatro Municipale Giuseppe Verdi di Salerno con la direzione esemplare di Daniel Oren.
Responsabile della struttura drammaturgica del libretto fu Illica, mentre a Giacosa, tutto sommato abbastanza estraneo per indole ai toni accesi del dramma, spettò l’incarico di versificarlo.
«Lì dove Giacosa vedeva dei limiti drammaturgici, Puccini ci vide invece quella che forse è l’opera più cinematografica di tutte» spiega Michele Sorrentino Mangini, regista dell’allestimento in scena dal 21 al 29 maggio sul palcoscenico del Teatro Municipale Giuseppe Verdi di Salerno. E continua, in quest’opera «nulla è lasciato al caso, ogni dettaglio è trascritto, ben indicati sono i luoghi, i modi, i tempi in cui devono svolgersi le azioni. Non ho potuto fare a meno, quindi, di restare fedele il più possibile all’opera e alle intenzioni di Puccini, cercando di assecondarla nelle sue inclinazioni e provando a portare semplicemente, con l’uso di qualche tecnologia e di qualche videoproiezione, un po’ di cinema nell’opera».
Insomma, proprio l’intreccio stringente, tipico del “romanzo passionale-erotico-avventuroso“ e in particolare il meccanismo spettacolare avrebbero interessato Puccini oltre evidentemente la possibilità di porre in primo piano il tema dell’amore sensuale da sempre centrale nel suo teatro».
Il soggetto di questo terzo grande successo pucciniano, seguito a Manon Lescaut e a La Bohème, è tratto ancora una volta dalla drammaturgia francese, in particolare la fonte è il dramma La Tosca, del 1887, di Victorien Sardou, un autore d’appendice che enfatizzava i colpi di scena e gli “effetti senza causa”, non a caso Puccini in quest’opera sembrò compiere per alcuni aspetti una virata verso il verismo. Infatti, la fedele ricostruzione storica e realistica dell’ambiente e del periodo storico immediatamente precedente la battaglia di Marengo, esplicitamente citata nel secondo atto, consentiva Puccini di aderire in qualche modo alle tendenze più aggiornate della musica operistica del tempo, pur sempre trasfigurata dal carattere simbolico della musica. Il secondo atto, ad esempio, si svolge nella camera di Scarpia, al piano superiore di Palazzo Farnese, da dove si ascolta attraverso un’ampia finestra la Cantata di Tosca che arriva dal piano inferiore dove la regina Maria Carolina sta dando una grande festa per la vittoria di Mélas.
Per una ricostruzione il più possibile fedele dell’ambiente romano, l’autore ricercò anche i consigli di altri collaboratori: Don Pietro Panichelli gli fornì l’esatta intonazione della campana grande di San Pietro (mi grave) e gli inviò il “cantus firmus” del “Te Deum” in uso nella liturgia romana; il poeta dialettale Luigi Zanazzo scrisse per lui lo stornello in romanesco di inizio terzo atto, una melodia di stile arcaico evocante il modo lidio.
Il successo intramontabile di Tosca, andata in scena per la prima volta al Costanzi di Roma, proprio in omaggio all’ambientazione romana della vicenda, e una delle opere più rappresentate al mondo, è legato agli indimenticabili momenti di grande teatro che la percorrono da cima a fondo. Tutto si svolge secondo una tensione incalzante quasi uno stile cinematografico da thriller psicologico. In particolare, nella sottolineatura della cifra sadica della perversa indole di Scarpia riscopriamo un aspetto della modernità di Puccini aderente al gusto decadente fin de siècle che esasperava, sulla scia del romanticismo l’irrazionale dell’uomo, ormai configurato come bruttezza e patologia (Moscow Carner).
Per lui Puccini scrive la prima grande parte per una voce bassa maschile. Il suo peso drammatico è segnato da quei tre accordi (tutti i personaggi sono dotati di leitmotive precisi) a piena orchestra che aprono l’opera con una sottolineatura degli ottoni che colgono in maniera semplice ma efficace la ferocia del personaggio e ci introducono in medias res senza l’introduzione orchestrale. Essi risuonano molto prima dell’effettiva entrata di Scarpia in scena, stabilendo nell’iniziale ambientazione della chiesa di Sant’Andrea della Valle un’immediata relazione fra religione e potere (Girardi). Tra il primo e il terzo accordo vi è un intervallo di quinta diminuita, il tritono famoso diabolus in musica che mai come in questo caso possiede tutta la sua forza metaforica e rappresentativa. Nel parossismo religioso addirittura Scarpia si inginocchia, in una scena da brivido, sommamente blasfema, in cui la corruzione e il male diventano tangibili.
Per Scarpia, Sardou si era ispirato a due persone realmente esistite: Gherardo Cucci detto Sciarpa, e Vincenzo Speciale, due degli uomini più temuti della Roma del loro tempo.
«Tosca è veramente un’opera che va verso la modernità, per lo stile fratto, che segue un ritmo narrativo realistico, per il percorso musicale discontinuo, ricco di svolte improvvise, per il nuovo modo di cantare che rompe la stroficità e la rotondità melodica, ferma restando l’ampia espansione lirica che si traduce in arie e duetti ormai aperti, vale a dire quasi mai rispettosi della rigida concezione del pezzo chiuso. C’è uno stile che rivela la crisi di un’epoca e la sua appartenenza al decadentismo, con la volontà di trasformare, di rompere il mezzo espressivo, a ritmica è variata e protagonista, in alcuni casi ossessiva. Questa ricerca espressiva andava di pari passo con dei temi ormai novecenteschi: il sesso, l’erotismo, l’ambiguità dei confini tra bene e male, i mostri cui, citando il D’Amico, il Novecento musicale guardò sempre più volentieri, ricordando a tal proposito Salomè, Elektra, Wozzek» (Rosanna Di Giuseppe).
Offriamo recensione della prima di martedì 21 maggio alle ore 21.
Il timbro vellutato e la perfetta tecnica vocale di Maria Josè Siri, nel ruolo del titolo, hanno caricato la sua performance di grande emotività e di indiscussa godibilità. Con grande attitudine interpretativa l’artista ha condotto il suo personaggio verso la maturazione culminante nel delitto: «E davanti a lui tremava tutta Roma». Verso la fine del secondo atto, Tosca, posta oramai con le spalle al muro, si scioglie in quel “Vissi d’arte”, suo unico pezzo a solo, l’aria più famosa dell’opera, che il soprano ha interpretato con passione e afflato insieme, assecondando poi il bis acclamato a gran voce.
Bis prontamente accordato anche per “E lucevan le stelle” che Gustavo Porta, nei panni del pittore Mario Cavaradossi, ha interpretato al terzo atto, quando il velario e le balconate si sono suggestivamente gremite di stelle, un firmamento a cura del light designer Nunzio Perrella.
Purtroppo la performance del tenore non è risultata pienamente convincente, musicalmente poco rigoroso e con uno stile vocale decisamente agée. Piuttosto malconci ne sono uscite le dinamiche musicali, che come equilibri delicatissimi avrebbero necessitato di una particolare cura, ed il fraseggio.
Intelligente ed equilibrata la prova di Sergey Murzaev, nei panni del barone Scarpia, buoni volumi, bel colore vocale sostenuto da una valida tecnica e abilità attoriale. Piuttosto appesantito, anche vocalmente, il Cesare Angelotti di Carlo Striuli. Bene il sagrestano di Angelo Nardinocchi, forse appena troppo sopra le righe in alcune caratterizzazioni, ma assolutamente empatico.
Felice senza dubbio la scelta di affidare il ruolo di un pastorello ad una voce bianca e naturale, nella circostanza quella bene intonata e limpida di Aysheh Husainat. A completare il cast Spoletta/ Enzo Peroni, Sciarrone/ Maurizio Bove, un carceriere/ Massimo Rizzi.
L’orchestra filarmonica salernitana, diretta da Daniel Oren, è riuscita a rendere giustizia alla complessità ritmica ed alla variegata tavolozza pucciniana con tutte le sue sfumature.
Oren è un gigante e Tosca è un’opera in cui egli da sempre crede e le eccellenti interpreti del ruolo che nei decenni si sono succedute nei cast diretti dal maestro israeliano hanno dato il meglio di loro stesse e quasi sempre arricchito il personaggio che con Oren trova sempre nuove angolazioni di lettura: È il Maestro.
Buona prova per il coro del teatro dell’Opera di Salerno e per il coro delle voci bianche rispettivamente preparati da Tiziana Carlini e Silvana Noschese. Semplici ma appropriati le scene ed i costumi di Flavio Arbetti.
Mariapaola Meo
Foto Massimo Pica ©