Il Requiem di Giuseppe Verdi è una celebre partitura composta, si sa, in suffragio di Alessandro Manzoni, un capolavoro che rappresenta per i solisti, per le masse corali, per il conduttore, per l’orchestra un vero banco di prova.
Già solo l’impatto visivo di un coro così nutrito come quello del Teatro di San Carlo, sullo sfondo, e gli strumentisti schierati mercoledì 24 aprile 2019 sul palcoscenico del Teatro salernitano che porta il nome del Maestro di Busseto, induce al raccoglimento ed evoca la monumentalità della composizione. In un silenzio partecipe (ma c’è sempre qualcuno che non spegne i telefoni, ahi noi!) abbiamo ascoltato una esecuzione che merita pienamente la standing ovation finale. Del quartetto vocale va detto subito, che all’ultimo minuto il soprano Rachel Willis Sorensen è stato sostituito da Iano Tamar, dotata di un timbro scuro, che non sempre riesce a proiettare la linea di canto e con poco volume nel registro basso.
Ciò premesso, la sua performance non soddisfa completamente, rivelando anche qualche imprecisione nell’intonazione.
Molto bella la voce del mezzosoprano russo Olesya Petrova, che si muove nel registro centrale e acuto, sempre ben dispiegato, intonando i pochi acuti della scrittura verdiana con agilità. Il suo Liber scriptus ha i giusti accenti; e dolente, invece, l’incipit del Recordare che poi si fonde con la voce del soprano. Il tenore Antonio Poli, ha un timbro omogeneo e fraseggio elegante, suoni appoggiati, leggero ed evanescente nella linea di canto che attacca in dolcissimo nell’Hostias et Preces e di grande effetto il suo legato nell’Ingemisco. Il basso cinese Liang Li ha voce corposa, timbro brunito e ottima emissione nel Mors stupebit e risulta drammaticamente convincente nel Confutatis.
La direzione di Juraj Valčuha, ha dato modo, con una superba cura delle dinamiche e una particolare attenzione alle nuances dei suoni, di sottolineare con forza il carattere sacro e gli aspetti meditativi della pagina verdiana. La sua concertazione, coglie in maniera austera e dettagliata la drammaticità ed il pathos insite nella scrittura musicale, prediligendo i momenti di maggior espressività tempestosa. Dopo il Requiem et Kyrie iniziale per il quartetto vocale e coro, staccato lento quanto basta per comunicare intime riflessioni, il Dies Irae, è un momento altissimo, di grande potenza in cui, complici la velocità esecutiva e le sonorità tonanti, voci e strumenti veicolano un senso di sgomento. Molto suggestivo anche il Lacrymosa, per soli ed orchestra. Il Coro del Teatro di San Carlo, preparato e diretto da Gea Garatti Ansini ha compatezza di suono, volumi equilibrati tra le corde e grande impeto nel famoso Dies Irae e nel Sanctus, una fuga a due cori che segue immediatamente all’Offertorio, affidato ai soli solisti. Dopo il Lux Aeterna, per mezzosoprano, tenore e basso, che prepara l’epilogo, nel Libera Me per solo soprano e coro (composto nel 1868 per una messa a più firme dedicata alla memoria di Gioachino Rossini, confluito poi nella Messa da Requiem di Verdi) ben sostiene Iano Tamar nella lancinante preghiera. L’Orchestra del Teatro di San Carlo, suono omogeneo, sezioni puntuali, procede con sicurezza e accuratezza dinamica, assecondando la lettura di Valčuha, accentuata negli aspetti percussivi e nelle timbriche degli ottoni. Pubblico in visibilio e lancio di rose sul palco concludono la serata, qui al Teatro Verdi di Salerno.
Per gli aspetti musicologici riguardanti il Requiem di Verdi, vi rimandiamo al dettagliato approfondimento sulla nostra rivista firmato da Dario Ascoli
Una preghiera laica per i giusti
Dadadago