Le composizioni sacre italiane, a partire dal XVIII secolo, sono state oggetto di controversi giudizi e divergenti opinioni circa la loro classificazione stilistica e di genere; a più riprese storici, musicologi e musicisti sono andati rilevando contaminazioni operistiche nella scrittura di lavori sacri e persino liturgici.
Non era estraneo un forse giustificabile desiderio di rivalsa dei teorici d’oltralpe dopo i due secoli che seguirono il Concilio di Trento, in cui la grammatica musicale, le regole del contrappunto e i criteri stilistici, in generale, venivano espressi e codificati con formulazioni dogmatiche e perentorie e le cui violazioni erano ritenute alla stregua di eresie.
Capolavori come lo “Stabat Mater” di G.B.Pergolesi o la “Petite Messe Solennelle” di G.Rossini, i numerosi “Salve Regina” e i mottetti di scuola napoletana e veneziana furono oggetto persino di giudizi al limite dell’irriverenza da parte di musicologi e musicisti di scuola mitteleuropea, ben lieti di potersi elevare a censori dell’italica musica , la quale aveva preso le distanze, scagliando anatemi, dalle forme del Corale e della Cantata Sacra, che della musica luterana erano divenuti colonne portanti.
La premessa spero giovi a comprendere la contraddittorietà di giudizi riversati su uno dei massimi esempi di musica sacra italiana del periodo romantico: La Messa da Requiem di Giuseppe Verdi.
Il grande studioso verdiano Julian Budden acutamente rileva come la musica di ispirazione, o forse meglio sarebbe dire, su soggetto sacro del periodo romantico, dovesse fare i conti con un sentimento religioso profondamente mutato nell’uomo del XIX secolo, decisamente meno incline al “fervore collettivo” e proiettato verso un sentire individuale del trascendente.
L’affermazione degli stati nazionali in Europa quasi sostituì al fervore religioso, troppo sovranazionale per le esigenze politiche del tempo, il sentimento nazionalistico; le conseguenze estreme, come ogni qual volta il potere manipoli i sentimenti delle moltitudini, saranno sanguinose, siano state esse crociate, conflitti mondiali o genocidi razzisti. Vorremmo ritenere vicende del passato tali barbarie, ma ci viene richiesto un enorme sforzo di visionario ottimismo.
Tornando alla religiosità di Verdi, possiamo collocarla pienamente nell’ambito romantico che configura un rapporto tra l’uomo e il “suo” Dio, in ogni stato d’animo di ricerca di conforto; da intellettuale liberale, il compositore, però, non sembra mai riconoscere né poteri temporali né prescrittivi ai cosiddetti ministri del culto.
Analogie forti legano Verdi ad altri grandi compositori dell”800, si pensi al Beethoven della Missa Solemnis, al Brahms di Eine Deutsches Requiem e soprattutto al Rossini dello Stabat Mater e della Petite Messe Solennelle.
Alla morte di Gioachino Rossini nel 1868, i musicisti italiani, su invito di Verdi, si proposero di realizzare una grande “Messa da Morto”, ma, benché in 13 (e gli scaramantici pensino ciò che vogliono) si fossero messi al lavoro, il solo Maestro di Busseto realizzò nei tempi previsti la sezione a lui assegnata, quel “Libera me” di vaste proporzioni che di lì a qualche anno sarebbe confluito nella “Messa da Requiem” per l’anniversario della scomparsa di un altro grande italiano, Alessandro Manzoni, opera eseguita il 22 maggio del 1874.
Se un grande direttore d’orchestra, uomo di teatro e di indiscutibile fede wagneriana come Hans von Bülow ebbe a definire il Requiem verdiano, non in senso di lode, come “opera in veste da chiesa” un altro e ben più colto musicista anch’esso tedesco e autore di un requiem in forma libera e nuova (Ein Deutsches Requiem) come Johannes Brahms parlò di “opera di un genio”.
Il musicista amburghese, che pure tanto si era ispirato al contrappuntismo tedesco e alla grande coralità luterana, dall’alto della propria genialità aveva saputo essere superiore a pregiudizi e a desideri di rivalsa e, pur identificando la profonda diversità linguistica, aveva riconosciuto il sommo valore del Requiem verdiano.
«[…] Mi sembra di essere diventato una persona seria, e di non comparire più come un pagliaccio dinanzi al pubblico, gridando: “Avanti, avanti, favorite!… battendo il tamburo e la grancassa” […]» scriveva Verdi all’editore Ricordi.
Non si trovano arditezze armoniche rilevanti in sé, nella scrittura del Requiem verdiano, colpisce tuttavia l’uso di risoluzioni non accademiche di dissonanze, a scopo espressivo, come nell’Introitus in cui, pur di mantenere quinte vuote e ridurre, altresì, la presenza di terze maggiori fino all’arrivo della parola “Luce”, Verdi mantiene irrisolte le settime.
Totalmente romantica, invece, la ricchezza della strumentazione, tanto nell’abbondanza di ottoni, quanto nell’uso delle percussioni.
Così come per Rossini, Verdi nutriva una grande ammirazione per il dedicatario della sua Messa da Morto; Manzoni aveva fortemente impressionato il musicista parmense, il quale tuttavia non condivideva la fiducia nella Provvidenza Divina che animava le opere e il pensiero dello scrittore, e la stessa fede in Dio non era in Verdi incrollabile e forse nemmeno così sentita.
Il musicista si era spinto, sia pur con dolore, ad ironizzare sulla fede nella Provvidenza del Manzoni, elevando parole quasi blasfeme contro la stessa che non avrebbe saputo salvare un tanto geniale suo “profeta”; ma l’ammirazione per il grande italiano, uomo di lettere, accompagnò il compositore per tutta la vita.
I rapporti tra Verdi e Manzoni sono da separare quanto a cronologia e ad ambiti; al musicista non poteva essere gradita l’incombenza della Fede nella letteratura manzoniana, tanto meno il prevalere in quella di un’attesa fatalistica di un intervento della Provvidenza; una nota di sincronia merita di essere riportata e riguarda quegli anni ’60 del XIX secolo, in cui lo Stato Pontificio rappresentava, se non nemico, un serio ostacolo al processo unitario della nascente Italia, fino al 20 settembre del 1870 allorché, come ironicamente si può affermare, con la breccia di Porta Pia , la Chiesa fu libera di entrare in Italia e di imporre la propria influenza ben oltre i confini di quello che era stato fino a quel momento lo Stato Pontificio.
«Vi stimo e vi venero quanto si può stimare e venerare su questa terra, e come uomo e come vero onore di questa nostra Patria sempre travagliata…»
Così Verdi in una missiva del 1867; si noti come il musicista introduca i concetti di stima legati all’uomo e alla patria; sia quel che sia, Verdi apprezzava la tolleranza dello scrittore, il suo pensiero liberale, e si vuole ritenere che l’incontro con l’autore de I promessi sposi abbia indotto il compositore a rimeditare circa oscuri propositi suicidi. Verdi, di fronte al dolore per la perdita della propria compagna, Giuseppina Strepponi, maturò, tuttavia, il convincimento dell’esistenza di un luogo ideale dei giusti, che, in una certa misura, si collegasse con quello che Dante riteneva fosse riservato a coloro i quali avessero osservato il comandamento “Diligite iustitiam qui iudicatis terram” (amate la giustizia voi che giudicate la terra)” .
Nel Canto XVIII del Paradiso, Dante immagina gli spiriti giusti che volano nel Cielo di Giove, intonando canti e disponendosi a formare le lettere che compongono la frase “Diligite iustitiam qui iudicatis terram”, tratta dal libro della Sapienza: la M finale trasfigura in un’aquila, l’iniziale di Monarchia che riceve l’investitura divina, destinata ad un eletto tra i Giusti.
Gran bella metafora per un uomo risorgimentale come Verdi, auspice di un potere giusto nella sfera pubblica e in cerca di una consolazione nella sfera privata.
Non a caso si è parlato, a proposito della grande Messa da Requiem, come di una preghiera di un agnostico, che raggiunge le vette più elevate nelle espressioni di maggiore teatralità e di sgomento di fronte all’apocalisse, come nel “Dies Irae” o che si sviluppa alla ricerca della fede, piuttosto che nel rifugio in essa, nel “Libera me, Domine”.Terminato il 10 aprile del 1874, il Requiem venne eseguito in San Marco a Milano nell’anniversario della morte di Manzoni, ma nella forma definitiva, quella che oggi giorno viene adottata, l’opera venne realizzata solo nel 1875, il 15 maggio, a Londra.
La vexata quaestio lirico-religiosa, ovvero, profana-sacra, circa lo spirito, rispettivamente, del compositore e dell’opera, risulta fortemente indebolita alla luce di due considerazioni:
1. il presupposto dell’estetica romantica, il quale lega l’opera d’arte al suo creatore è, negli anni in cui Verdi completa la Messa da Requiem, assai affievolito.
2. La circostanza di una Messa per defunti in suffragio di una grande personalità è essenzialmente una celebrazione del personaggio dipartito, un omaggio civile, prima ancora che una liturgia religiosa. Potremmo parlare di “liturgia civile”.
Volendo esemplificare e condurre ad estrema sintesi un insieme complesso e variegato di sentimenti, di ispirazioni e di impulsi motivazionali, potremmo azzardare a ricondurre il Requiem verdiano ad un’opera di affermazione di identità culturale della neonata Italia.
Passando a considerazioni formali, la tradizione cattolica non è rigidamente vincolante in materia di articolazione della missa pro defunctis; non esistono imposizioni riguardanti lo stile nel quale musicare questa o quella sezione, ovvero obblighi di adottare lo “stile figurato”; persino la presenza di Graduale e Tractus è facoltativa e la sezione conclusiva, cui appartiene il “Libera me, Domine” è, in effetti, esterna alla messa, in quanto riferita al rito dell’Absolutio super tumulum.
Sanctus e Agnus Dei non di rado mancano in messe per i morti, anche di autori importanti e notoriamente prolifici, anche se essi sono parti dell’ Ordinarium.
Verdi affrontò il problema del conferimento di unità organica all’intera partitura affidandosi ad un insieme di materiale motivico che si dipana lungol’intera messa.
«…questo brigante si permette d’essere, non dirò ateo, ma certo poco credente, e con ciò con una ostinazione e una calma da bastonarlo» riferisce Giuseppina Strepponi del “suo” Verdi.
Ostinazione e calma laica che assurgono a virtù che il compositore rivela nell’elaborazione della musica sacra, forse in misura ancora maggiore che nella stesura dei capolavori del melodramma.
«Quant’invidio mia moglie, d’aver visto quel Grande! Ma io non so, se, anche venendo a Milano, avrò il coraggio di presentarmi a Lui.» scrive Verdi a Clarina (Clara) Maffei il 24 maggio 1867, riferendosi a Manzoni, da sempre ritenuto dal compositore uno dei due Grandi Italiani insieme a Rossini.
Esprimendo il proprio dolore per la scomparsa del Pesarese, l’autore di La Traviata scriveva:
«Un grande personaggio è scomparso dal mondo! Il suo nome era il più diffuso, il più popolare del nostro tempo ed era una gloria per l’Italia! Quando anche l’altro ancora in vita (Manzoni, ndr) non ci sarà più, che cosa rimarrà? I nostri ministri e le imprese di Lissa e Custoza»
In queste due righe rinveniamo la venerazione per Rossini e per Manzoni, quali Numi della cultura italiana, ma anche un’annotazione amara sulla sconfitta ingloriosa dell’esercito italiano nelle battaglie di Lissa e Custoza e delle ancora meno lusinghiere vittorie ottenute, per conto dell’Italia, da quello di Prussia, nostro alleato contro l’Austria.
I ministri del Regno verranno etichettati come “pettegoli e vani come la più meschina femminetta”.
Una grande distanza tra la mediocrità della classe politica e l’eccellenza degli intellettuali e degli artisti. Nulla di nuovo sotto il cielo, dunque.
L’amarezza del grande compositore era accresciuta dall’emanazione del decreto del ministro Emilio Broglio che, nel 1868, sanciva l’eliminazione dei Conservatori di Musica, definita “un insulto all’arte musicale italiana”.
Quando poi Verdi scriverà, nella lettera all’editore Ricordi: “non vorrei aiuti stranieri, né alieni al mondo dell’arte”, riferendosi al sovvenzionamento dell’esecuzione della Messa per Rossini, egli sembra riferirsi all’intervento della Prussia, più che a fianco, in sostituzione dell’Italia nella guerra per la conquista di Venezia, obiettivo che pure era straordinariamente caro al musicista.
Il bussetano prescriveva anche che la Messa per Rossini fosse eseguita in San Petronio a Bologna e riproposta esclusivamente nelle celebrazioni degli anniversari: “non dovrebbe essere oggetto di curiosità o speculazioni, ma, appena eseguita, dovrebbe essere sigillata e collocata negli archivi del Liceo Musicale della città”.
Erano anche, quegli anni ’60 e ’70 del XIX secolo, un periodo di anticlericalismo in funzione antipontificia, come di opposizione ad uno Stato straniero, ad una Chiesa secolarizzata.
La considerazione serve a meglio inquadrare la non scontata disponibilità a concedere luoghi consacrati al culto, per un uso “artistico” non strettamente liturgico o non ritenuto tale dalle preposte commissioni episcopali.
Fino all’esecuzione in San Marco, il timore di una improvvisa revoca dell’agibilità aleggiava sugli organizzatori, su Verdi e persino, o soprattutto, sul Sindaco di Milano.
Nei mesi che seguirono la morte di Gioachino Rossini, il 13 novembre 1868, non disponendo della Messa da Requiem “a firma multipla” che era nei desiderata di Verdi e di Ricordi, vennero eseguite , a suffragio del grande Pesarese, le composizioni pro defunctis di Mozart e le due di Cherubini, tutte molto ammirate e studiate da Verdi.
La Messa da Requiem per Rossini è stata eseguita solo nel 1988! ben 120 anni dopo la morte di colui alla memoria del quale era stata dedicata.
Vi furono numerose pressioni su Verdi perché questi autorizzasse l’esecuzione della Messa per Rossini fuori di luoghi e ricorrenze.
“Può la nuova Messa competere con quelle di Mozart, Cherubini ecc.. con lo Stabat, con la Petite Messe? Se si, allora datela, No? Allora Pax Vobis”.
Il celebre saggio di Rosen sul Requiem di Verdi stabilisce un parallelo tra Rossini e il Maestro di Busseto del tipo : Aida sta al Requiem come Guillame Tell sta allo Stabat Mater o alla Petite Messe Solennelle.
L’esecuzione in San Marco della Messa di Verdi segnò anche una rottura di un tabù che appariva inviolabile: “mulier taceat in Ecclesia”, tra le farneticazioni di Paolo di Tarso, quella con maggiori conseguenze nel campo della Musica.
Il Compositore pretese, con la decisione che gli era propria e l’autorevolezza conquistata, che le donne fossero ammesse a cantare in un luogo di culto e in sede liturgica.
Le coriste presero parte all’esecuzione, ma furono costrette ad indossare un velo che ne coprisse il capo e che discendesse lungo il busto fino a mascherare le forme muliebri.
Monsignor Calvi celebrò una “Messa secca”, vale a dire senza benedizione del pane e del vino e perciò senza eucarestia.
Nelle successive esecuzioni in chiesa, invece, laddove non ritenute non liturgiche i vincoli di abbigliamento furono non di rado rimossi; in ogni caso, ecco un motivo in più per esclamare, con un risorgimentalismo delle pari opportunità: Viva VERDI!
In barba alle finalità rigorosamente morali e celebrative, a cui lo stesso autore aveva inneggiato, le prime tre esecuzioni milanesi portarono un profitto di oltre 16.000 lire, di cui giunsero a Verdi ben 40091,05 lire.
Dopo le esecuzioni milanesi, la Messa da Requiem fu eseguita a Parigi, Londra, Vienna e Colonia.
Per l’esecuzione londinese, Verdi sostituì l’originario Liber Scriptus fugato a 4 voci, con un brano per Mezzosoprano solo, che risulta essere stato composto nel 1874.
La tournée europea fu determinante per accreditare Verdi quale compositore sinfonico-corale e dotto.
La Missa pro defunctis cattolica è caratterizzata dal coesistere di momenti di terrore per la punizione divina e di rassicurazioni in merito alla vita eterna, entrambi destinati all’assemblea dei fedeli sia in funzione consolatoria della perdita, che in funzione di monito per l’osservanza dei Comandamenti e di fiducia nella vita eterna.
Angoscia, consolazione, ansia, riposo eterno compaiono circolarmente nel testo e Verdi ha saputo porli in musica con magistrale sapienza, adoperando forme e linguaggi della seconda metà del XIX secolo.
Troviamo la coesistenza sinergica di brani di commento, di meditazione esterna con altri che scaturiscono da un io narrante, sgomento, commosso o implorante.
Delle sezioni dell’Ordinarium come Kyrie e Christe, Verdi cura la intelligibilità testuale, liturgica: non vi è, e nemmeno v’è motivo vi sia, alcuna narrazione.
Nella Sequenza, i cui versi, distribuiti in 18 stanze, sono attribuiti a Tommaso da Celano,· · è diffuso voler sottolineare il tono apocalittico della partitura verdiana e si vuole che il coro sia un “narratore” dei tremendi fatti, mentre i solisti danno voce alle “anime terrorizzate”.
Benché affascinante e semplificatoria, la schematizzazione non è proponibile, anche stanti le alternanze di prima e terza persona nel testo.
Ci piacerebbe poter affermare , però, che la differenziazione di visuale, consentiteci di “protagonismo narrante”, non sia riconducibile alla mera persona verbale, quanto piuttosto· · al sentimento che permea le singole sezioni: la musica predomina sul testo e ne determina, confermandola o negandola, la visuale narrativa.
La “lirica” consta di 19 strofe di 3 versi; le prime 6 sono narrazione/visione e adottano la terza persona, le 11 che seguono sono invocazione/meditazione ed usano la prima persona; le ultime 2 hanno carattere neutro di preghiera per un “terzo” soggetto, come in “Dona eis requiem”.
Come però immaginare che un artista romantico del XIX secolo narri vicende apocalittiche senza proiettarsi, immedesimato, in esse?
Un evento universale ha per protagonista un tutti omnicomprensivo, per il quale la seconda persona perde significato non potendo rivolgersi ad altro da sé e la prima e la terza collassano in un’indefinibile impersonalità soggettiva accomunante.
Verdi assegna un ruolo protagonista al coro nelle sezioni narrative per poi consegnare alle voci soliste il compito di interpretare le emozioni del singolo uomo, ma indipendentemente dalle circostanze grammaticali.
L’incertezza di definizione di persona verbale diviene una risorsa per il compositore, che se ne serve per proiettare nella moltitudine terrorizzata il singolo o trasformare l’umanità intera di ogni tempo in un unico io dialogante.
A conclusione del solo del Mezzosoprano l’autore ripresenta l’angosciante motivo del Dies Irae, che viene riproposto per ricondurre il sentimento musicale verso l’apocalittico destino comune.
Il Lacrymosa è, come consuetudine, un brano corale, il cui materiale tematico proviene dal Don Carlos, precisamente dal lamento di Filippo II sulla salma di Posa; Verdi evoca quel dolore che ha insito il senso di colpa che aspira a divenire pentimento e redenzione anche in relazione alla dimostrata inefficacia del male.
Il Requiem esordisce il La minore in pp, con archi sordini, in Andante; Bassi e Tenori entrano a battuta 7 con un anapesto, privo della 3a , imitati a battuta 9 dalle voci femminili.
Successivamente il movimento si fa accordale fino a battuta 17, quando sulle parole “et lux” modula in La maggiore, ma in ppp e in Tutti.
“Dona eis, Domine” è dapprima cantato da “soli 4 soprani”, secondo le indicazioni di Verdi. Con una risoluzione eccezionale di un accordo di 7a di dominante, a battuta 28 si modula in Fa maggiore e si presenta un canone, alla 5a tr Bassi e Tenori e poi tra Alti e Soprani, fino a battuta 40.
Sulle parole del salmo “Te decet hymnus” Verdi apre una finestra sullo stile severo antico, ricorrendo all’unico episodio a cappella riservato al Coro, escludendo un brevissimo passaggio di una sola battuta nel Libera me, Domine.
Da battuta 41 si riespone il materiale musicale delle battute iniziali, ancora con la modulazione in maggiore su “et lux perpetua”.
A battuta 78, con un solo di fagotto, il Tenore solista attacca il Kyrie, con uno slancio che in sole due battute gli fa percorrere un intervallo di 7a minore dal la2 al sol3, con indicazione di “animando un poco”; il basso strumentale compie un movimento discendente di un’ottava, per gradi congiunti e semitoni.
L’effetto dell’attacco del Tenore solista viene amplificato da un breve crescendo di tre battute in un “falso la minore”.
A battuta 82, sempre con il disegno ascendente verso la 7a minore, ma sulle parole Christe eleison, entra il Basso solo; l’ingresso del Soprano solo, a battuta 86, invece, regala una maggiore apertura melodica, dilatandosi su una nona maggiore.
A battuta 90 tocca per ultimo al Mezzosoprano che dilata la melodia su una decima minore; l’ambito tonale è divenuto, nel frattempo, quello di Do# minore.
Il Coro propone il materiale melodico, con minime mutazioni, non a battuta 94, quando entra con una melodia discendente dei Bassi, una “volta” dei Tenori, un salto di 6a degli Alti e un ribattuto dei Soprani, ma a battuta 97, con ingressi a canone B,T,A,S, contrappuntando i Soli in Do#minore.
Le alterazioni generano dense modulazioni ed enarmonia, il Basso solo a battuta 105: dox, re#, mi#, fa#, sol x, la# che è chiaramente enarmonia di re, mib, fa, solb, la, sib, un modo dorico con l’alterazione del quarto grado.
A battuta 109 il Mezzosoprano solo ripropone il soggetto con la melodia ascendente di 7a e ad esso risponde il Basso solo, mentre il Tenore canta una sorta di controsoggetto per poi assumersi il soggetto a battuta 113, slanciandosi fino a la3.
Soli e Coro procedono utilizzando frammenti tematici fino alla grande cesura che giunge sei battute prima della conclusione del numero, con una cadenza “napoletana” II grado abbassato, V, I di la minore.
Benché inframmezzato da una pausa, i Bassi (solo e di coro) percorrono un tritono sib-mi naturale, proprio della modalità frigia diremmo “tonalizzata”, o, se preferite, della scala napoletana: un omaggio alla musica tonale romantica o una sorta di diabolus nascosto, come quello recentemente rinvenuto negli affreschi di Giotto raffiguranti la vita di Francesco d’Assisi.
Il rispondere può avere scarso interesse, ma lo assume l’interrogarsi, giacché Verdi avrebbe ben potuto usare la cadenza IV-V-I con l’accordo di sesta napoletana, conservando l’armonia, ma sfuggendo il diabolus; assunto che di distrazione non può trattarsi, il campo all’analisi è aperto.
La Sequenza inizia con un Dies irae “Allegro Agitato” in Sol minore, S,A,T del Coro sono divisi, i primi cantano un pedale acuto di tonica, mentre i secondi di ogni corda percorrono una frase cromatica discendente verso la dominante, raggiunta la quale danno vita ad un’inquietante breve progressione di terzine.
Uno “sciame di anime sonore” degli archi anticipa il ripresentarsi dell’hoquetus in Sol minore, reso ora ancora più apocalittico dalla percussione della grancassa “Le corde ben tese onde questo contrattempo riesca secco e molto forte” annota Verdi sulla partitura.
In ff entrano le voci maschili ad 8a per 2 battute, dopo le quali il Coro tutto con S,A e T divisi, ripropongono, giustapposti, il disegno cromatico discendente e il motivo a terzine.
Su “Solvet saeclum in favilla”, cadenzando in Re minore, la sonorità si apre verso l’acuto su un accordo di dominante con i Soprani primi ascendenti a la4, a battuta 24.
Sempre su un moto cromatico discendente, che caratterizza in particolare la linea del Basso corale, il brano prosegue e la voce grave completa la frase con “Teste David cum Sibylla”.
Al ripresentarsi delle parole Dies irae, arditamente, Verdi sdoppia la corda dei Soprani disponendo primi e secondi a distanza di settima diminuita, che rappresenta il bicordo superiore di un tesissimo accordo di nona minore, con Bassi e Tenori su un concitato tremolo d’archi e orchestra piena.
La disposizione dei Soprani primi e secondi a formare settime diminuite si ripete.
Isolate uscite di “soli” dal coro tratteggiano la metafora di anime disperse nel atterrito caos apocalittico.
Il Tutti corale si ricompone nell’episodio “Quantus tremor est futurus” in pp con le 4 voci a ottave e unisoni, un’uguaglianza al cospetto del Sommo Giudice.
Un accordo di Do minore degli archi con ottoni “in lontananza e indivisibili” , secondo la didascalia di Verdi – ma che riteniamo frutto di un refuso tipografico di “invisibili” per sortire l’effetto sorpresa -· · apre il Tuba Mirum.
A battuta 113, in ff, su un sonoro re3, in “recto tono” entra il Basso solo annunciando lo squillo della Tromba del Giudizio: “Tuba mirum spargens sonum” su metro ritmico trocaico, il Soprano del coro, invece, intona semibrevi su un’unica altezza.
Il Basso corale, a battuta 121 inizia un movimento per salti di 4a e di 5a; la frase “spargens sonum” offre a Verdi l’opportunità di madrigalismi retorici, passando le parole, spargendole, da una voce all’altra, fino a “coget omnes ante thronum”.
“Mors stupebit” ha indicazione “Molto meno mosso” ed è virtualmente impiantato in Re minore; in effetti si tratta di un episodio modale dorico, che si contamina di frigio con un lungo mib3 in crescendo, che poi scende d’ottava e chiude in pp sul re, quando la parola topicaq “mors” ricompare e una discesa cromatica conduce ad un accordo di la maggiore che conclude la sezione “giustificando” l’impianto tonale scelto in Re minore.
Dopo l’esecuzione londinese è invalsa l’adozione del Liber Scriptus per Mezzosoprano solo; esso è un allegro molto sostenuto in Re minore.
La melodia del Mezzosoprano è molto lineare: note ribattute e salti di 5a, gradi congiunti, A battuta 177 in pppp a unisoni e ottava il Coro “con voce cupa e tristissima” ripresenta “Dies irae”.
A battuta 183, su un’armonia di accordo di dominante di fa#, il Mezzosoprano solo entra in ff: “Judex ergo cum sedebit” che trova simmetria in “Quidquid latet apparebit”.
Da battuta 195 l’incedere si fa cadenzale, il Basso orchestrale procede con progressioni e prevalgono le funzioni armoniche classiche, con tensioni drammatiche affidate ad accordi di settima diminuita.
“Estremamente piano”, pp, “con voce cupa e tristissima” per un nuovo riproporsi di “Dies irae”.Il numero prosegue quasi responsorialmente tra Mezzosoprano e Coro.
A battuta 232 in Allegro agitato, a tutto organico, Soprani divisi, torna con impressionante veemenza il filo conduttore apocalittico del Dies irae, con tremolo di timpani e di flauti e ascese cromatiche di quinte di oboi e clarinetti.
A battuta 270 l’andamento si fa Adagio in 6/8 sul solo del Mezzosoprano “Quid sum miser tunc dicturus” senza accompagnamento strumentale.
“Rex tremendae majestatis” è un Adagio maestoso in Do minore che attacca con un tremolo di timpani, di viole e violini.
Il Basso corale discendente fino a toccare un estremo FA1 e poi ancora in cadenza d’inganno su un lungo lab sotto il tremolo d’archi e i tenori divisi a 3.
Il Basso solo entra a battuta 330 con “salva me, fons pietatis”, cui risponde il Soprano, ma con un anapesto protetico, mentre Mezzosoprano e Tenore compiono un’imitazione tonale; la voce femminile acuta conserva il carattere protetico puntato che risolve la tensione sui tempi forti come a rappresentare una rassicurazione di un femminile celeste.
Il Coro rientra in ff a 336 e i Bassi reiterano la frase discendente in Do minore.
A battuta 347 l’armatura in chiave diviene di Do maggiore; la chiusa della frase precedente del Soprano solo è in un enarmonico reb su un basso orchestrale di do#.
Mezzosoprano e Soprano solo duettano imitando a canone quasi perfetto, mentre il coro risponde con l’anapesto “salva me”.
Da battuta 351 l’imitazione si estende alle quattro voci soliste; Verdi conserva l’impianto in Do maggiore, ma in realtà l’episodio evolve in Do minore, fino alla cadenza finale piccarda, dopo un susseguirsi delle voci che si scambiano la frase “salva me” su un intervallo di sesta maggiore ascendente e seconda discendente.
Sarebbe ingeneroso ironizzare circa una citazione di brindisi di operistica memoria; l’intervallo – vietato dalle regole dello stile severo – è il medesimo del celeberrimo incipit di “Libiam ne’ lieti calici”, ma la temperie è tutt’altra.
Il Mezzosoprano solo è incaricato di intonare la prima frase intimamente legata al Cristo: “Recordare Jesu Pie” in un 4/4 in Fa maggiore; il Soprano imita generando un sereno duetto.
E’ come se all’apparire, nel testo, della figura di Gesù, la speranza, o, se preferite, la certezza della vita eterna e della salvazione si effondesse tra i pentagrammi.
Grande retorica teologico-musicale disegnata da un laico, forse ancora agnostico per “Redemisti Crucem passus”.
A battuta 447, senza soluzioni di continuità, ad orchestra in pausa, il Tenore solo canta una delle pagine solistiche più intense della Messa: “Ingemisco tamquam reus”. In Do minore.
La voce tenorile spazia su una tessitura medio-acuta sulla frase “Qui Mariam absolvisti”, fino a raggiungere un sib3, tenuto e in crescendo.
Ancora a 493, nella penultima battuta, procedendo per gradi, quasi librandosi, il Tenore ascende al sib3.
Fin dalla prima esecuzione si vollero ravvisare analogie tra questo passo solistico e melodie ritrovabili in Aida: “L’assolo del tenore, Ingemisco, con le sue oscillazioni tra quinte intere e diminuite nell’accompagnamento, richiama passaggi simili in Aida. Questa armonia innocente del Requiem è l’unica che mi ha ricordato Aida” scrive Eduard Hanslick, all’indomani dell’esecuzione viennese e, a merito della Messa aggiunge: “Le due composizioni sono abbastanza distinte e indipendenti l’una dall’altra, considerando come possono essere differenti due opere dello stesso autore”.
“Confutatis maledictis, flammis acribus addictis”, 4 battute del Basso solo, “con forza” su un ribattuto di si naturale2 e salto d’ottava discendente; una breve corona su una pausa collega il “voca me cum benedictis”.
Tra tutte le sezioni del Requiem, probabilmente, questa è quella in cui l’io narrante, emozionato, supplicante, assume maggiore rilievo.
A battuta 528 torna il ff di “confutatis” seguito dal· · dolce cantabile di “voca me”· · in un ambito tonali di fa minore, benchè l’armatura sia priva di alterazioni.
A battuta 539, su “oro supplex et acclinis” si riaffaccia il materiale iniziale; la cadenza conclusiva della sezione risolve eccezionalmente in Sol minore, giustappondendosi ad un’ennesima ripresa di “Dies irae”.
Lacrymosa è un delicato Largo in Fa minore, introdotto dal solo Mezzosoprano su un hoquetus degli archi, di reminiscenza mozartiana.
Il Basso solo entra a canone all’ottava, mentre a battuta 641 fa il suo ingresso il Coro con Soprani e Alti divisi; il Soprano solista ascende a lab4, mentre il solo del fagotto raddoppia il Mezzosoprano.
Lo stile imitato diventa prevalente nell’ Animando un poco da battuta 657, più avanti i Soli (battuta 667), a cappella, intonano “Pie Jesu, Domine, dona eis requiem”.
Il Coro, con raddoppio degli archi, subentra a battuta 677. Si noti un aspetto numerologicamente interessante: diversamente dal periodare su frasi da 8 battute, questi passaggi presentano blocchi di 10 battute.
La Sequenza si conclude con la supplica di “Dona eis requiem”.
L’Offertorio esordisce con i legni sostenuti dal violoncello, insieme strumentale sul quale entrano mezzosoprano, e tenore solisti, in 6/8.
Con distese melodie del Soprano solo, in tempo 4/4 e in Fa minore, in andamento di Allegro mosso, l’episodio “Quam olim Abrahae promisisti”, con imperiosi interventi a canone dei soli.
A battuta 120 dell’Offertorio si presenta uno dei momenti musicali più intensi, emozionanti e ispirati del repertorio verdiano: in Adagio e in pp, su cui il Tenore solo libera la melodia, in un puro Do maggiore, con note di volta congiunte, che possiedono quella sublime linearità che è propria delle ispirazioni più alte: “Hostias et preces”.
La testa del tema viene ripresa dagli altri soli; al registro acuto del Soprano solo spetta la frase “de morte transire ad vitam”, sul quarto grado minore; ancora a canone, la partitura ripropone “Quam olim Abrahae”, con una melodia cromaticamente discendente di Soprano e Tenore.
Il Sanctus è una sontuosa composizione per doppio coro, armato in Fa maggiore.
Un accordo ff sulla dominante, dopo 5 battute in cui prima e terza tromba ribattono a ottave il do, così come il Tenore e il Basso, in risposta.
L’Allegro in 2/2 propone Soprano I e Soprano II dei Cori imitarsi in contrappunto a 2 voci.
I temi di questo doppio coro sono due; il primo è un dattilico tetico che arpeggia un’ottava ascendente, con un semipiede trocaico iniziale, il secondo è un sincopato.
La scrittura di questo numero ha richiesto a Verdi un impegno probabilmente nuovo, i cui risultati gli guadagnarono una stima di contrappuntista, fino a quel momento non attribuitagli.
Sul levare della battuta 33 tocca al Tenore II, con uno slancio di quarta ascendente, dare inizio all’ Hosanna, mentre le altre 7 voci concludono il “Dominus Deus Sabaoth”
Solo 8 battute accordali, dopo le quali inizia il Benedictus, che riutilizza il materiale tematico del Sanctus, sviluppandolo in assoluta analogia.
Il secondo Hosanna prende vita dal secondo Coro, mentre il primo completa “Pleni sunt coeli et terra Gloria Tua”, frase che è ad origine del divertimento.
Solo a battuta 115 il Coro I, in ff, si prende carico di intonare l’ Hosanna, a cui, a battuta 119, risponde il Coro II.
L’orchestra ha flauti e ottavini in ottava, così come in tal modo sono disposti violini I e II e trombe. L’epilogo è a Cori accordalmente uniti, con ripetute cadenze in Fa maggiore.
Charles Rosen, ammirato dalla magniloquenza di questo numero, quasi si preoccupa di salvaguardarlo da confronti con le grandi fughe bachiane: “Mentre ascoltiamo le fughe di Bach, abbiamo imparato a discernere, in ogni momento, se il soggetto sia presente o meno. (…)· Questo non sarebbe un modo appropriato per le due fughe del Requiem di Verdi”.
L’ Agnus Dei attacca con Soprano e Mezzosoprano soli ad ottava, esponenti la prima invocazione; il Coro, come “assemblea” imita la frase, anch’esso disposto su unisoni e ottave.
Solo sul “Dona eis requiem sempiternam” le voci si differenziano; il numero si chiude in pp con violini nel registro sovracuto.
Lux aeterna è un terzetto che impegna le tre voci inferiori; come accade ripetutamente lungo tutta la Messa, una voce solista si fa carico di declamare antifonicamente la prima frase, in recto tono; in questa circostanza ad esordire è il Mezzosoprano, su una base di 12 violini primi e 12 violini secondi divisi a quattro. Il brano è oscillante tra modo maggiore e modo minore e l’orchestrazione che accentua la retorica come i tremoli dei timpani con accordi di fagotti e tromboni alla parola “requiem”.
“Lux aeterna luceat eis, Domine, cum Sanctis tuis”, il Basso solo risponde con “Requiem aeternam dona eis”. All’ingresso il Tenore è in sesta con il Mezzosoprano, con un tornito movimento a terzine.
A battuta 29 le tre voci si dispongono accordalmente su un secondo rivolto di sib maggiore che, con “odore” di sincope armonica, si trasforma sul levare della battuta successiva in un accordo fondamentale; in verità la suddivisione in battute regolari e tra loro uguali viene sacrificata alle esigenze testuali, ragione per la quale talvolta le misure vanno intese raggruppate a due e, perciò, le rigide regole del cambio di armonia sul nuovo tempo forte risultano inapplicabili.
Il Basso si nuove inducendo una modulazione a Solb maggiore e, fino alla conclusione, il movimento è imitato sulla frase “cum Sanctis tuis” e accordale su “requiem”, chiudendo in Sib maggiore.
La grande Messa da Requiem si conclude con quel brano, che, con successivi aggiustamenti, era stato composto, lo si è più volte detto, da Verdi per la commemorazione di Rossini: “Libera me, Domine”.
La consueta intonazione iniziale è stavolta affidata, in Do minore, al Soprano solo, che è voce principale nell’intero numero.
Il Coro riprende la declamazione del Soprano, “assemblearmente”; a battuta 45, dopo una lunga pausa, inizia un Allegro agitato in Sol minore, che è l’unificante fil rouge del Dies irae, il cui testo si mescola con quello del Libera me.
La fuga ha inizio a battuta 179, il soggetto viene esposto dal Contralto del coro, il Soprano risponde alla dominante, con mutazione, sulla terza battuta; a battuta 193 entra il soggetto al Basso e a 200 al Tenore, a battuta 208 il Basso del coro apre un nuovo episodio con soggetto che è quello del Sanctus, strettamente imparentato, ribaltamento, al soggetto I della fuga.
Giunti all’ultimo numero, scopriamo che pressoché tutto il materiale tematico del Requiem è contenuto in quel “Libera me” realizzato anni prima per la Messa a più voci in commemorazione di Rossini, qui riutilizzato da Verdi con alcune modifiche.
Anche il divertimento consegna intelligibile e rinvenibile il soggetto.
L’intero arsenale di tecniche di trattamento contrappuntistico viene impiegato nei passaggi liberi di “divertimento”, ritroviamo progressioni, movimenti cromatici.
Analogo procedimento è impiegato per il Soprano solo a cui Verdi chiede di ascendere ripetutamente al Si4 e addirittura a Do5 a battuta 392, tenuto per due battute e mezza.
La Messa si conclude con un ribattuto di do3 in pppp, morendo, sulle parole Libera me, con Soprano e Alto del coro unisoni e Tenori e Bassi ad ottava.
Si conclude in tal modo una preghiera composita, multiforme e persino talvolta ambigua come può esserlo l’animo umano, con i suoi tormenti, le sue passioni, le sue debolezze, i suoi pentimenti, le sue paure; ancora Hanslick, per porre fine a dispute e classifiche tra composizioni sacre di stili e matrici culturali e religiose diverse, saggiamente conclude: «Per fortuna niente ci obbliga a fare certi confronti e possiamo onorare entrambi i compositori (Verdi e Brahms, ndr) ciascuno onestamente e significativamente creativo nel proprio stile».
La migliore conclusione di questo breve scritto riteniamo possa essere tratta dalla chiusa del saggio di Ildebrando Pizzetti sul Requiem, da “Nuova antologia” del 1941:
“Quando Verdi pensava a Dio e all’eternità e pure alla morte, non credo vedesse mai vicino a sé un abisso (…) anche quando dice a Lui, per sé, per l’umanità alla quale egli appartiene, i suoi timori e le sue angosce, anche quando prega e chiede misericordia, guarda in alto. (…) Dio, egli certo pensa, non può volere che, pur per adorarlo, l’uomo disprezzi e avvilisca quella sua dignità morale che Egli gli ha dato. E uomo Verdi rimane, sempre. Perciò lo sentiamo, tutti, fraterno: perciò lo amiamo”.
Dario Ascoli