Ancora a spasso nella storia: i padri nobili della critica
Non sarà sfuggito al lettore che la figura del critico abbia assunto nel corso della storia connotazioni sempre diverse, non solo per adeguarsi alle evoluzioni più o meno parallele, dei mezzi di diffusione dell’informazione e di quelli della riproduzione musicale.
Un ruolo che però ha sempre occasionalmente svolto il critico è quello che, con neologismo, oggi si definisce “polemista”.
Passato alla storia, suo malgrado, più per la soccombenza nei confronti del genio Monteverdi, che per i suoi non trascurabili meriti culturali, Giovanni Maria Artusi (Bologna, 1540 circa – 18 agosto 1613) è il primo grande teorico ad aprire un pubblico dibattito su argomenti di armonia e contrappunto.
Mantenendo fede a quanto argomentato nel 1586 in “L’arte del contraponto ridotta in tavole”, il primo pubblicista musicale moderno prosegue con stile censorio con “Seconda parte dell’arte del contraponto nella quale si tratta dell’uso e utile delle dissonanze…” per giungere alla vera e propria polemica teorica nei confronti di Claudio Monteverdi ( ), che però inizialmente non viene nominato, che si sostanzia con “Artusi, ovvero Delle imperfettioni della moderna musica…” pubblicato a Venezia come i precedenti tomi, nel 1600.
A Monteverdi il suo detrattore rimprovera soprattutto l’uso dell’accordo dissonante di settima di dominante, nonché la scrittura monodica.
Lo stesso divino Claudio risponderà cinque anni dopo nella prefazione a “Scherzi Musicali” «Non vi maravigliate ch’io dia alle stampe questi madrigali senza prima rispondere all’oppositioni che fece l’Artusi (…) Io non faccio le mie cose a caso et tosto che sia rescritta uscirà in luce portando in fronte il nome di Seconda Pratica, overo Perfettione della Moderna musica»
Nella dedica a Vincenzo Gonzaga, due anni dopo il musicista cremonese scriverà definendo il suo volume: «parto di Madrigali, supplicandola che sì come non isdegnò d’udirli più volte nelle sue regie camere, mentre erano notati a penna, et udendoli diede segno di singolarmente gradirli, onde m’honorò del carico sopra la nobilissima sua Musica: così (…) sotto la protettione di così gran Prencipe, vivranno eterna vita ad onta di quelle lingue, che cercano di dar morte all’opere altrui»
Il lettore può apprendere che la querelle si stempera qualche decennio dopo, come lo stesso Monteverdi «Si quietò in maniera che per l’avvenire non solamente si firmò di passar più oltre ma volgendo la penna in lode, cominciò ad amarmi e a stimarmi»
Cent’anni più tardi ben più che una polemica vede l’uno contro l’altro due musicisti, che giungono a sfidarsi a duello: Johann Mattheson e Georg Friedrich Händel.
La circostanza di rilievo è che il meno noto dei due compositori sia il primo critico musicale su un periodico: “Critica Musica”, pubblicato dal 1722 al 1725.
Anche tra i due musicisti tedeschi sopravviene un lieto fine, al punto che essi instaureranno un proficuo rapporto collaborativo.
D’altra parte gli strali del Mattheson non risparmiano nemmeno J.S.Bach, del quale vengono presi di mira molti capolavori, come la Fuga in Sol minore BWV543 e le Cantate “parodia”, diffuse nella copiosa letteratura bachiana superstite e verosimilmente anche in quella andata smarrita, soprattutto del periodo di Lipsia, mentre qualche anno prima così si esprimeva Mattheson:
«Ho visto, dal famoso organista di Weimar, il Sig. Joh. Sebastian Bach, cose che tanto per la chiesa quanto per gli strumenti a tastiera sono concepite certamente in modo tale che se ne deve stimare altamente l’uomo».
La cadenza dei cento anni si conferma con l’avvento sulla scena della critica musicale di un altro musicista recensore: Robert Schumann.
In un celebre scritto critico in cui trovano posto i più grandi geni del passato, Florestano, uno degli alter ego di Robert Schumann in “Scritti Critici”, così si esprime dopo l’ascolto della Sinfonia n.9 op 125 di Beethoven: «E quand’essi ebbero finito, il Maestro disse con voce quasi commossa: «Ed ora, basta! Lasciateci dunque amare quell’alto spirito, che guarda in gita, con amore inesprimibile, alla vita, che a lui diede così poco. Io sento che noi oggi gli siamo stati più vicino del solito. O giovani, avete davanti a voi una via lunga e difficile: aleggia in cielo una strana tinta di rosso, non so se di crepuscolo o di aurora. Fate che diventi luce!».
Le sorgenti vengono sempre più avvicinate nel grande corso del tempo. Beethoven, ad esempio, non ebbe bisogno di studiare tutto ciò che aveva studiato Mozart, Mozart non tutto quello che aveva studiato Haendel, Haendel non quello di Palestrina, perché essi avevano già assorbito in sé i predecessori. Da uno soltanto tutti potrebbero attingere di nuovo, da J. S. Bach!»
E un dialogo tra Eusebio e Florestano restituisce una sintesi della mai sopita quaestio sull’impossibilità di parlare di musica:
«Eusebio – «Il musicista colto potrà studiare una Madonna di Raffaello con la stessa utilità con cui il pittore studierà una sinfonia di Mozart. Ancor più: allo scultore ogni attore apparirà come una statua tranquilla, a questa le azioni di quello darà forme di vita; al pittore la poesia diventerà immagine, il musicista trasformerà i quadri in suoni.
Florestano – «L’estetica di un’arte è quella delle altre; soltanto il materiale è diverso»».
Tra gli stessi scritti pubblicati sulla la “Neue Zeitschrift für Musik” , Schumann incontra un altro critico e musicista, Hector Berlioz e gli dedica lusinghiere espressioni: « Sebbene Berlioz trascuri il particolare e lo sacrifichi al tutto, egli attende però con molta cura a renderlo ingegnoso e finemente lavorato. Ma non spreme i suoi temi fino all’ultima goccia e non ci toglie, come spesso fanno gli altri, il piacere d’una bella idea con una noiosa modulazione tematica; egli s’accontenta di accennare che saprebbe compiere un lavoro più rigoroso, s’egli volesse, e al momento opportuno, schizzi brevi e ricchi di spirito. Egli esprime le sue più belle idee una volta sola, per lo più, e quasi come di passata»
E ancora più avanti: «Ma se si chiede, se la musica possa dare in realtà ciò che Berlioz nella sinfonia esige da essa, si cerchi allora di sostituirle immagini diverse o magari opposte. In principio il programma m’ha offuscato ogni godimento, ogni libera veduta: ma quando se n’è andato sempre più in secondo piano ed ha cominciato ad operare la mia fantasia, v’ho trovato non solo tutto questo, ma molto di più ancora e quasi dappertutto un caldo tono di vita»
Un pieno clima di Restaurazione, il giovane Rossini, mentre lavora a Otello, per il San Carlo, si dedica ad una singolare opera buffa che mette alla berlina l’informazione, incurante che quell’ironia possa alienargli qualche favore degli editori e di conseguenza, della critica napoletana.
Al Teatro dei Fiorentini di Napoli, il 26 settembre 1816 va in scena “La Gazzetta” su libretto di Giuseppe Palomba, rivisto da Andrea Leone Tottola, a partire dalla commedia del 1763 “Il matrimonio per concorso” di Carlo Goldoni.
La farsa in musica si apre proprio con una scena in cui domina l’ironia, quasi lo sberleffo, contro un quotidiano che i personaggi si scambiano, ridendo della bizzarria di un annuncio che un ricco inserzionista ha voluto fare pubblicare per maritare la figlia.
Non c’è che dire, un bell’esordio per il giovane pesarese, da poco approdato nella capitale dell’opera
Non trascorrono invece 100 anni prima che appaia sul palcoscenico della critica un musicista recensore di grande vaglia quale Arrigo Boito.
Nel volume che raccoglie le critiche cronache musicali dal 1862 al 1870 si trovano interessantissimo recensioni ma anche lettere a apolitici a governanti che mostrano quanto in questa fase di evoluzione storica, il musicista critico negli anni fra il 1862 1870 pubblica degli interessantissimi scritti tra cui recensioni lettere aperte e pubbliche a governanti e amministratori di teatri che saranno raccolte nel volume “Critiche e Cronache musicali” di Arrigo Boito pubblicato da Garzanti qualche anno dopo.
Si riconosce un atteggiamento aristocratico e conservatore nel pensiero di Boito che anche e uno scapigliato «l’arte non riconosce libertà di critica all’uomo mediocre come la legge non accorda libertà d’azione al mentecatto:
I liberi sono i grandi; ad essi soli è buon dritto, nei sacri regni dell’arte, la libertà delle idee, degli amori degli odii».
Evidente è che l’autore in queste parole voglia ritagliare per se stesso un ruolo di preminenza nello scenario culturale dell’Italia postunitaria.
Già in quegli anni di fine Ottocento, Boito si avviava a scolpire un epitaffio della critica:
«Abbiamo smarrito il senso critico dell’arte; non v’è critica nel pubblico, non v’è nella stampa. Ecco perché l’apata sofferenza di tutte le sere nelle platee dei nostri teatri, ecco perché il vacuo cicalio di tutti i giorni nelle appendici delle nostra gazzette, ecco perché la nencia dimenticanza in cui basiscono tutti i più vitali problemi dell’arte, senza che persona al mondo ponga mente al danno e alle beffe che ne stanno dinanzi, se si continui ancora quest’ordine per breve spazio di tempo»
Subito dopo un capitolo dedicato a Mendelssohn in cui riprende, con atteggiamento anche farisaico, le affermazioni avverse alla musica italiana del grande musicista tedesco, compare una lettera in quattro paragrafi che Boito scrive a sua eccellenza il ministro della Pubblica istruzione.
Con espressioni ironiche a tratti sarcastiche il critico ricorda i trascorsi dell’uomo politico divenuto ministro e gli rimprovera la leggerezza del passato e anche la trascuratezza nei confronti della musica.
Più avanti citando una lettera niente meno che a Gioacchino Rossini, Boito rimprovera il ministro della falsa modestia ovvero dell’autentica ignoranza musicale con cui prima si definisce mero amatore e poi si avventura in citazioni del tutto fuori della portata dello stesso uomo politico.
E più avanti ancora critica l’idea di creare una società rossiniana non per mancanza di stima nei confronti del genio pesarese, quanto perché Boito ritiene decisamente più rilevante dare corpo sostanza e risorse ai conservatori musicali.
Testualmente Boito scrive: «Morale della favola: lavarsi le mani di questa roba dei conservatori fa risparmiare al Governo quattro soldi, diminuendo la cifra che nel bilancio è destinato agli istituti musicali».
Al limite della irriverenza e il brevissimo quarto ed ultimo paragrafo della lettera aperta al ministro letteralmente il paragrafo recita: «A, b, c, d, e, f, g, h, i, l, m, n, o, p, q, r, s, t, u, v, z».
Nella recensione a “I Lombardi alla prima Crociata” di Verdi, Boito introduce elementi di raffinatissima satira paragonando il Teatro alla Scala con la Parigi del “Jardin Mabile” e della “Salle Barthélemy” .
Si leggono paragoni e metafore in cui la Direzione della Scala diventa una grisette inseguita da un citrullo arrapato, mentre le cianfrusaglie in vendita, accumulate sul marciapiede, sono le opere più importanti del tempo Norma. I Puritani, Lucia e Lombardi.
Nella recensione poi, dopo aver apostrofato “i Lombardi alla Prima Crociata” con “Meraviglioso!”, Boito osserva:
«Ecco perché i Lombardi sono invecchiati, ecco perché il Rigoletto è ancora giovane e fa andare in visibilio il pubblico parigino del Théátre Lyrique. Il motivo addotto è che oggi bisogna guardare losco, dare un occhio al pubblico è un occhio all’arte.
Così diceva Verdi mentre scriveva I Lombardi, ma oggi ed è chiaro il riferimento all’Italia unita, è tempo di guardare dritto in faccia all’arte con le pupille spalancate».