Senza la gobba il Rigoletto del TCBO è piatto

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«Ah, non sei più tu. Senza gobba non ti riconosco o forse Sì. Qualcosa del noto buffone c’è, ma questo accrocchio non mi torna e di primo acchito non so nemmeno spiegarmi il perché.»
Ricordando la presentazione, capisco d’un tratto cosa “stona”. Il participio “rivisto” usato come aggettivo svela la vera ambiguità dello spettacolo. «In questa edizione rivista – prosegue il regista – la deformità di Rigoletto è fisica. A causa di una malformazione il protagonista è impossibilitato ad usare un braccio, che viene coperto da un elemento decorativo con cui per tutta l’opera egli gioca, esibendo e nascondendo questa deformità, facendola diventare il centro di uno spettacolo crudele e circense. In realtà l’emergere di questa deformità fisica, che rende difficilissimo per lui compiere anche gesti come accarezzare, baciare, portare qualcosa o abbottonarsi, rivela il dolore interiore vissuto da Rigoletto».
Questo Rigoletto sarà stato pur gradevole e cantato nell’insieme degnamente ma non ha avuto intensità. Si è mantenuto costantemente su un discreto livello senza regalarci picchi emozionali.
Più ci penso e più c’è qualcosa che mi sfugge. In fondo la messinscena non mi è dispiaciuta e ho passato quasi tre ore piacevoli, ma da una rivisitazione ci si aspetta qualcosa che stupisca, che scuota, magari che divida anche la platea con chiacchiere e polemiche. Non pervenute.
Invece, sono stati offerti al pubblico degli elementi che sarebbero stati anche apprezzabili se non fossero stati buttati a casaccio sul palco. Le scene orgiastiche in cui la donna viene abusata a mo’ di oggetto sono sembrate congegnate da una regia approssimativa. Non è né una questione di perbenismo, tantomeno di ortodossia. Qui non si contesta l’idea del festino (che mi è sembrata anche interessante) ma il suo sviluppo superficiale e soprattutto l’interazione sciatta dei personaggi nel contesto registico.
Che ruolo ha il Duca? Sembra un bamboccione che non realizza ciò che succede. Un uomo superficile, incline al vizio edonistico senza cattiveria. Cattiveria, invece, che sembra pervadere la corte. E Gilda? Possibile che si rapisca una fanciulla e la si sottoponga a violenze senza che il duca sappia? Possibile che a una donna abusata dal gruppo non resti nessun trauma. Un secondo prima è disperata, quello dopo è disposta a dare la vita per il Duca Aguzzino come se niente fosse successo. Non si percepisce alcuna dinamica interiore in un ruolo cardine della storia. Un po’ troppo anche per la sindrome di Stoccolma.  Parallelamente, mentre Gilda non realizza la violenza, la figlia di Monterone perisce svuotata d’animo. Qualcosa non torna.
E Rigoletto? La sua difformità sarà stata pur solo morale. Ci sta, capisco. Forse un po’ anche fisica per via del braccio monco, capisco un po’ meno ma ci potrebbe stare.  Ma se Rigoletto non ha la gobba, come mai si muove sul palco come se l’avesse? Per dare un aspetto sinistro? Questo non lo capisco. Non ci sta proprio.
Ben vengano le riletture e il dio dell’opera ci salvi dal manierismo e dalla monotona dittatura dell’ortodossia. Ben vengano anche i registi che usano una storia per raccontare una propria suggestione. Auspichiamo, però, che la suggestione si accompagni ad uno studio sui personaggi. La profondità della visione non può essere affidata solo a delle belle e suggestive immagini “buttate” sul palco. Non funziona. Se non c’è profondità nel personaggio, si diluisce l’intensità del dramma stesso. Questo è accaduto. Allargando il concetto appena espresso, la regia di Pizzech ci ha dato da pensare ma non si può dire che sia stata brutta. Anche noi, non facciamone un Dramma.
Già, perché i momenti d’insieme sono stati proprio belli. Così come le scene di Davide Amadei. L’idea del lettone rosso, le donne un po’ fetish, l’atmosfera da privé sono veramente ben riuscite.
La teca in cui Rigoletto chiude Gilda è addirittura meravigliosa e sostituire la locanda con una Barca non dispiace. Davvero un gran peccato che il contesto registico non abbia tenuto assieme questi lampi.
Peccato perché il cast vocale ha avuto il merito di una buona riuscita. Rodati nei ruoli i protagonisti. Stefan Pop è stato a proprio agio nella parte del Duca di Mantova. Il Rigoletto di Alberto Gazale, sebbene con qualche titubanza, è affidabile per voce e presenza scenica. E Lara Lagni? Se di primo acchitto ha tolto il fiato per bellezza nel corso della recita ha alternato parti scialbe a momenti veramente esaltanti. Come non citare sia il  cristallino “Caro nome” che il Bis richiesto a furor di pubblico per “Vendetta”. Due gemme che- da sole- hanno impreziosito la recita.
Buoni tutti gli altri. Ad Abramo Rosalen  è mancata un po’ di profondità per la parte di Sparafucile.  Sinceri gli altri: Anastasia Boldyreva, Nicolò Ceriani,  Simone Marchesini, Rosolino Claudio Cardile, Abraham Garcia Gonzalez, Laura Cherici e Chiara Notarnicola. Pulita la direzione di Matteo Beltrami e buono il lavoro del coro diretto da Alberto Malazzi.
Alla fine di questo Rigoletto senza gobba resterà il ricordo un bel pomeriggio primaverile e poco più. Le premesse per qualcosa di più ambizioso c’erano tutte e con questo cast vocale si poteva osare.
La regia è sbandata tra le curve (che non ci sono) di una gobba. Ahimè, questo Rigoletto non è affatto brutto, è piatto. Chissà cosa avrebbero detto Verdi ed Hugo.

Ciro Scannapieco

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