Edipo Re, una tragicità che dal buio cosmico ricava pienamente l’uomo

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Una sagoma stilizzata di un albero e una benda che penzola da uno dei rami, tutto è bianco sotto le luci che illuminano questa ideale e quanto indecifrabile piazza di Tebe. Al suo nuovo re i cittadini, con in mano i rami d’ulivo cinti di bende, si rivolgono in maniera supplichevole, perché liberi la città dalla peste. Sono i primi versi della tragedia Edipo re di Sofocle, ripresa dalla compagnia teatrale pugliese “La Calandradiretta da Giuseppe Miggiano, messa in scena domenica 31 marzo 2019 al Teatro Genovesi nell’ambito dell’undicesimo Festival Teatro XS di Salerno. L’atmosfera lunare del palcoscenico, in netto contrasto con lo sfondo nero, accompagna l’incedere lento di una sagoma umana. Un groviglio di stracci, ammaliante e ripugnante insieme, con uno scialle nero sulle spalle, sembra uscire dai gorghi più oscuri del tempo, a stridere con la musica del cosmo. E’ una sequela di violente invettive, contro gli uomini che si ergono a padroni della propria sorte, ma intanto gli dei incuranti li intrappolano nella loro superiore volontà. Si tratta di un oracolo (Patrizia Miggiano) che dà responsi su cose ignote del passato, del presente o futuro, la quale ha predetto al re Laio di Tebe che il figlio generato con Giocasta un giorno, inconsapevolmente, lo ucciderà per giacere nel talamo con la madre. Spiega anche gli antefatti della vita di Edipo, poi resta sullo sfondo, a sorridere beffarda del destino umano e della potenza delle sue profezie. Il vero dramma, però, si svilupperà a Tebe liberata dalla Sfinge grazie alla saggezza di Edipo. Saranno tre diversi attori ad interpretare lo sventurato figlio di Laio, come riflettori accesi sui diversi momenti di questa avventura esistenziale, da uomo inconsapevole dei crimini commessi, a re di Tebe che cercherà di liberare la città dalla peste, ponendosi alla ricerca dell’uccisore di Laio, fino all’epilogo drammatico e dell’auto condanna alla cecità. Una parabola dell’ascesa, della potenza e del declino, con il testimone che passa da un Edipo all’altro, una collana regale con un pendaglio a triangolo, che i tre attori si consegneranno l’un l’altro. Il primo Edipo (Donato Chiariello) imponente e consapevole, ha la sicurezza del saggio, risolve l’enigma della Sfinge con lucidità e intelligenza, ha certezze e audacia che gli verranno ripagate con un destino beffardo. Apollo intanto vuole che dall’appestata Tebe sia bandito il contaminatore, il re Edipo (Federico Della Ducata) intende scoprire chi sia costui, ma la sua regale magnanimità sarà smontata dai moniti di Tiresia e di Creonte, che richiamano la supremazia degli dei e dell’arte profetica. L’ira del re è incontenibile, le rassicurazioni di una regale e seduttiva Giocasta (Anna Rita Vizzi) non lo placano quando gli ricorda il mancato inveramento dell’oracolo che raccomandò a Laio di non avere figli dalla moglie, pena la morte per mano del figlio. Sappiamo che andò diversamente. Edipo dovrà prendere coscienza del suo passato, il resto verrà alla luce grazie ai resoconti di un messo corinzio e del pastore che lo salvò da piccolo, eventi che saranno fatali per completare il puzzle. L’intuizione di Edipo ora è certezza, uccidendo quell’uomo ha ucciso il padre suo stesso, quindi l’ultimo Edipo (Luigi Giungato) è disperato, per cui si auto punirà strappandosi gli occhi. Solo il tenero incontro con le figlie lo consolerà rispetto alla cecità del Fato, mentre gli dei saranno benevoli compensandolo con la grazia. Il rovesciamento delle sorti umane, l’orgoglio di sé punito con la colpa e l’espiazione, secondo un ordine inconoscibile, la precarietà degli uomini, sono i concetti racchiusi nei tetrametri conclusivi della tragedia. Gli uomini potenti e invidiati possono cadere sempre nella sciagura.
«E allora fissa il tuo occhio al giorno estremo e non dire felice uomo mortale, prima che abbia varcato il termine della vita senza avere patito dolore» (trad. Franco Ferrari).
Bene alla regia di
Giuseppe Miggiano, che ha doviziosamente compattato gli eventi, operazione non da poco, visto l’intreccio e la complessità del testo, con una narrazione che non ha perso di coerenza e unitarietà. Non è mancata anche una certa suggestione visiva, grazie anche alla scenografia (Piero Schirinzi e Andrea Raho), essenziale nell’oscurità materica dello sfondo, cui al centro scena si staglia l’albero lunare, in un contrasto luce-ombra caratterizzante anche lo stesso Edipo. Gli attori si sono confrontati con un personaggio complesso e gigantesco, questo tutto a loro merito, tre facce di un prisma attraverso cui si scompone la figura del Re dalla personalità sfaccettata e densa di sfumature. Una scelta registica originale, che si inserisce nelle tante possibilità di lettura e di rappresentazione della tragedia, che però non ha evitato allo spettatore uno spiazzamento, perlomeno iniziale. Si segnalano le buone capacità espressive di tutti gli attori ed il preciso coordinamento scenico, per interpretazioni generose, anche se non abbiamo avvertito, se non per brevi tratti, un reale pathos. Il pubblico ha applaudito convinto, per una contemporaneità che iscrive questo classico tra le vette della drammaturgia di ogni tempo, capace di suscitare sempre meraviglia e riflessione.

Marisa Paladino

 

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