Il Padre di Florian Zeller, la coppia Haber-Della Rovere in un “testa a testa” comico e commovente

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Andrea, il padre, si dirige verso il parco con passo incerto. E’ accompagnato da un’infermiera della casa per anziani che lo ospita, lei gli stringe entrambe le mani, in un gesto materno e consolatorio, fuori in giardino c’è il sole. Il sipario cala su questa scena, poetica e commovente, ma è come se calasse sulla vita del protagonista. Il Padre del drammaturgo francese Florian Zeller, in scena giovedì 21 marzo 2019 al Teatro Verdi di Salerno, si conclude così. Si parla di alzheimer con toni in apparenza leggeri. Alessandro Haber impersona il padre che fa i conti con questa malattia, devastante e progressiva. Ha una figlia Anna, interpretata da Marina Lante della Rovere, dal carattere sobrio e dall’aspetto raffinato, incalzata da questa perdita di memoria del padre, in un’ora e quaranta di teatro senza interruzione. Il protagonista vive le fasi salienti del disturbo da alzheimer, smarrisce oggetti e identità delle persone, perde progressivamente le coordinate spazio-temporali, è burbero e ironico insieme, a tratti lucido e tenero con la figlia. La sua indiscussa bravura, esperienza ed empatica connessione al ruolo, convogliano l’attenzione del pubblico, divertito dalla scherzosità e leggerezza d’animo del personaggio, ma anche colpito dalla sua energia vitale. Non mancano momenti di commozione, quando umore e reazioni sono sempre più in bilico, tra irascibilità e spaesamento, in una difesa strenua della propria indipendenza, messa a rischio dalla figlia che cerca di convincere il padre a cambiare vita. Ad esempio accettando l’aiuto di una badante. Il corpo a corpo psicologico ed affettivo tra padre e figlia è senza esclusione di colpi, Anna ad un certo punto sogna di soffocare l’oramai ingombrante padre e Andrea sospetta che la figlia ed il genero vogliano sottrargli le proprietà anzitempo, ma prevale, al di là di queste latenti e oniriche dimensioni conflittuali, la voglia di comprendere, mista ad una dolorosa tenerezza. La malattia non dà scampo, però, anche a sentimenti contraddittori e laceranti, che si consumeranno nell’elegante appartamento parigino di Anna. Lì si è trasferito il padre da quando non può vivere da solo, ma servirebbe una badante capace di occuparsi di lui in assenza della figlia, l’incontro con una giovane venticinquenne (Ilaria Genatiempo) è esilarante. Andrea è rinvigorito e lusingato, si produce in un tip-tap a tutto palcoscenico, inventa di essere stato un ballerino e sogna a briglie sciolte, colorando di attesa e nuove emozioni la giornata, la soluzione però sarà velatamente osteggiata. L’angolazione drammaturgica, con la scelta registica di Piero Maccarinelli di azzerare il disegno luci (Umile Vainieri) lasciando pochi accordi sonori (Antonio Di Pofi) in sottofondo, una sorta di fermo-immagine in stile quasi cinematografico, sono l’escamotage per partecipare lo spettatore dello spaesamento del protagonista. Scelta di non immediata comprensione, che anzi disturba inizialmente, poi si mette a fuoco l’affondo nella mente sconvolta di Andrea, ed è come se l’escamotage perdesse efficacia. Sequenze frammentate, battute riprese e azioni ripetute, sdoppiamento di personaggi, lo spettatore registra la realtà alterata di Andrea, restando però non emotivamente coinvolto. I minimali cambi di scena (Gianluca Amodio) ogni volta che le luci si spengono, in un gioco di sottrazione di arredi che è anche sottrazione di vissuto, ci conducono all’ultimo lettino che da solo campeggerà sul palco, quello della struttura per anziani, capolinea di una vita. La costernazione della figlia cresce come l’incapacità di gestire la situazione, il compagno Piero (David Sebasti) non comprende, interessato soprattutto alla felicità ed al proprio benessere. Anna, messa di fronte ad una scelta, deciderà per la struttura organizzata, potrà andare dal padre in qualche fine settimana, intanto un’infermiera (Daniela Scarlatti) e un medico (Riccardo Floris) si occuperanno del padre. Testo molto lucido, che tratta di vecchiaia e declino cognitivo. Non spiazza né compie sommari processi, anche se chiama alla responsabilità familiare, rappresentando con realismo le difficoltà e il dolore che certe situazioni disseminano nelle famiglie. Alessandro Haber, multiforme e veritiero, in questa magistrale prova d’attore ha giocato al meglio con tutte le diverse sfumature della malattia. Lucrezia Lante della Rovere è l’interfaccia familiare, di chi vive l’allontanamento affettivo di un proprio caro ed il peso della scelta, una difficile sequenza di stati emotivi che l’attrice ha espresso sempre in maniera debitamente misurata. Manca una credibilità emotiva, nonostante la buona prova attoriale resa. Il cast che ruota intorno ai protagonisti ha la sua ragione nel taglio introspettive e psicologico della scrittura, tesa ad indagare interazioni tra la malattia e un mondo circostante che continua ad esistere. Le recitazioni, nel solco della necessità scritturale, non escono mai da un cono d’ombra che la figura del Padre proietta a tutto campo. Innegabile, comunque, il coraggio di trattare l’inclemenza di una malattia disturbante e complessa, mentre socialmente rilevante, come accade ad ogni fine spettacolo, è la menzione di Alessandro Haber per l‘AIMA, Associazione Italiana Malattia di Alzheimer, cui ogni spettatore può garantire una libera donazione.

Marisa Paladino

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