Jordi Galceran è un drammaturgo, sceneggiatore, autore di racconti e adattatore in catalano e castigliano di numerose opere straniere. Nel 1995 ha vinto numerosi premi con Parole incatenate, portato in scena al Festival Teatro XS dalla Compagnia Le Fortunate Eccezioni di Lucca.
Un testo, primo di una trilogia che ha per oggetto due persone legate da vincoli affettivi, estremamente lucido, ben strutturato, che indaga senza veli, dall’interno e da molte angolazioni, le dinamiche relazionali di una coppia, condannata a dissolversi nell’omicidio di lei.
L’inferno è lì, davanti a noi, spettatori, qui come nella vita reale, quando apprendiamo inorriditi, di continui e macabri delitti di donne uccise dal proprio partner. Il personaggio femminile, Laura, giace per terra, legata, imbavagliata, rannicchiata, inerme. Un’immagine già di per sé disturbante, che viene proiettata anche sullo sfondo… Un luogo tetro allestito spartanamente. Un uomo, sconvolto, dalla platea le va accanto. Il gioco perverso e crudele del gatto (palesemente superiore che si diverte ad offrire vie di fuga), e del topo (destinato a soccombere), comincia: seraficamente, per terrorizzarla ancor di più, proclama di essere un serial killer e di aver già ammazzato e sepolto diciotto persone, una al mese, scelte a caso. Il sequestratore, che alterna momenti di normalità a scatti furiosi, la costringe ad un gioco di società, con parole e sillabe da ‘incatenare’ tra loro. La posta è la vita di lei, la sua libertà. Ma lui chi è? Uno psicopatico? Perché la tiene prigioniera? Perché sussurra nel suo delirio iniziale (e finale) “è finita lo so che non mi ami più ma io ne son felice fuori dal tuo abbraccio fuoco vento senza i tuoi lacci se muori questa terra sarà un giardino”? Sarà davvero la diciannovesima vittima?
La trama rivelerà tra scenate; umiliazioni; rancori; interpretazioni psicologiche e psicanalitiche; indicibili verità; inganni; bugie e calunnie, il loro antico legame: Laura è una psichiatra e l’uomo minaccioso è il suo ex marito. La tensione è continua, i ruoli si ribaltano, il confine tra vittima e carnefice si stempera, sembra che ognuno sia colpevole, che ognuno abbia le proprie attenuanti, mentre aleggia quanto può la mente umana distorcere la realtà e quanto sia intrisa di lati oscuri, irrazionali e perversi. Repentini cambi di registro si alternano, il baluginio di una rappacificazione pare intravedersi, ma le ossessioni di lui condurranno il gioco ad un epilogo brutale e pianificato sin dall’inizio. Ritmo sostenuto, ambientazione inquietante e soffocante in questo noir duro e lacerante (in cui la verità ha mille volti) che ci riporta alla mente i tristi e quotidiani episodi di cronaca e due protagonisti affiatati nei ruoli della coppia “malata” (oggi si usa spesso definire in tal modo i rapporti che conducono gli uomini al crimine e ai maltrattamenti…). L’argomento della pièce tocca corde emotive e morali ed onestamente abbiamo difficoltà a non esprimere giudizi e pur riconoscendo la natura umana incline a complesse dinamiche e varie patologie psicotiche, di una cosa siamo certi: la parola Amore, quando designa un sentimento autentico e non di pura parvenza o di narcisistico appagamento, mai e poi mai, senza alcuna attenuante, senza alcuna giustificazione, senza alcun dubbio, senza se e senza ma, non può ‘incatenarsi’ con le parole violenza, negazione dell’altro, sevizie, ferocia, morte.
Parole incatenate nell’adattamento di Alessandro Lutri che ne è anche bravo interprete assieme a Rosi Verazzo, con la regia claustrofobica di Roberto Pecchia, lungamente applaudito alla sala Genovesi di Salerno il 17 marzo 2019.
Dadadago