Come, più o meno, vent’anni fa. La sera del 9 maggio 1998, a vent’anni dal delitto Moro, Marco Baliani propone un assolo sul tema ai Fori Imperiali di Roma, ripreso anche da Rai2. Nel quarantennale della strage di via Fani lo stesso artista ripropone lo spettacolo, in una versione teatrale, a Salerno, lunedì 21 gennaio 2019 al Teatro Diana Sala Pasolini, drammaturgia e regia di Maria Maglietta, dal titolo Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa. Folto il pubblico presente, tanti “ragazzi” di allora ma anche giovani di oggi, per ricordare, condividere e capire. Negli anni cosiddetti di piombo la democrazia apparve sospesa, il sequestro di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, da parte di un commando di brigatisti il 16 marzo 1978, cinque gli uomini della scorta brutalmente uccisi, fu uno spartiacque in questa escalation di violenza, il suo culmine ma anche un punto di non ritorno. Il corpo dello statista “acciambellato in una sconcia stiva” (Mario Luzi), ritrovato nel bagagliaio della Renault 4 rossa, abbandonata nel centro di Roma, è una immagine indelebile nell’immaginario collettivo. Marco Baliani parte da questo incipit per ricordare un’altra morte, parimenti violenta ma meno eclatante. Il giornalista siciliano Peppino Impastato, attivista di Democrazia Proletaria, in quello stesso 9 maggio 1978, veniva fatto esplodere, imbottito di tritolo, dopo avere ripetutamente denunciato dai microfoni di Radio Aut gli affari dei mafiosi del posto, in testa quelli del clan di Gaetano Badalamenti. Il boss non esitò a siglare la sua condanna a morte. Marco Baliani in quegli anni era stato uno studente di architettura, dove aveva vissuto le prime esperienze teatrali, era un giovane impegnato nei movimenti studenteschi che, pian piano, si organizzarono in movimenti politici. Le assemblee, la lotta operaia, la saldatura tra studenti e operai per contestare lo Stato borghese, furono anni di militanza e di ribellione, raccontati fuori dalle mitizzazioni che hanno accompagnato ogni narrazioni sul ’68. Ma come fu possibile quel salto dalla militanza politica alla clandestinità? La lotta armata doveva abbattere lo Stato, sordo alle istanze della classe proletaria, un progetto che trascinò con sé la violenza dell’odio di classe e il disprezzo per la partecipazione democratica. L’odio inquinò le coscienze, le istanze legittime di una maggiore giustizia sociale furono sopraffatte dall’ideologia dei gruppi armati, in una sequenza di morti ammazzati e ferite politiche, sociali ed esistenziali mai del tutto superate. “Ho cercato allora di ritornare laggiù – nelle note dell’autore – in prima persona, ricordandomi di me in quei giorni, trovando nelle mie esperienze di allora quelle “piccole storie” che sole possono tentare di illuminare la Storia più grande”. Le manifestazioni di protesta, i cortei e i lacrimogeni, i compagni che decidevano di accreditarsi agli occhi dei leader con le rapine, disposti a tutto per finanziare la lotta armata, ma anche le innocenti pulsioni vitali per una bella compagna militante, i ricordi del narratore si intrecciano alle storie di Armando, di Fabio e di Sara, sullo sfondo la grande Storia. Video in bianco e nero, nel montaggio curato da Michele Buri, scorrono alle spalle di Marco Baliani, materializzando quei ricordi, cortei di giovani, polizia e lacrimogeni, passamontagna e dita in aria che mimano la P38, il sonoro della telefonata di rivendicazione delle Brigate Rosse dell’omicidio di Aldo Moro. Il contrappunto visivo e sonoro alla narrazione, la naturalezza espressiva di Marco Baliani, insieme di esperienza teatrale e magia affabulatoria, sono un raccontarsi per raccontare un’epoca. La memoria collettiva si ritrova, fluisce in questo spettacolo dal climax ascendente, che ha il suo culmine nel finale, dove il senso della divisione e della sconfitta hanno come contrappeso il richiamo ai valori della pietà umana e della verità. Tutti di quella generazione partirono da un grande sogno, ma si spaccarono, chi non scelse di armarsi fu costretto al silenzio e chi scelse le armi imboccò una via senza ritorno, macchiata di sangue e di morte. Restituire a questi morti la verità della loro morte è un obbligo morale, un dovere civile, un monito alle coscienze, una salvezza per le generazioni che verranno. Questo il senso finale della rappresentazione, mentre assistere, di questi tempi, ad un teatro di rinnovato impegno civile, dobbiamo riconoscere che è straordinariamente edificante. L’attenzione è stata mantenuta senza difficoltà, in un’atmosfera di complice emozione, sulle note finali di “Ma il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano uno scroscio perdurante di applausi investe il Mattatore della serata, meritatissimi.
Marisa Paladino