Kat’a Kabanová: una tempesta di pregiudizi e di rimorsi

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«Ho incominciato a comporre una nuova opera. La protagonista è una donna, di carattere molto mite […] basterebbe un colpo di vento a trasportarla via, per non parlare della tempesta che si riversa su di lei.»
Così scriveva Leos Jaáček riferendosi a Kat’a Kabanová.
L’opera del compositore ceco, datata 1921, è in scena al Teatro di San Carlo dal 15 dicembre con la direzione di Juraj Valčuha ela regia di Willy Decker, ripresa da Rebekka Stanzeld.
Si tratta di una tragedia il cui libretto, redatto dallo stesso compositore, è ispirato al dramma russo di Ostrovskij Groza, e  la cui realizzazione fu fortemente sostenuta da Václav Jirikovskij, direttore del teatro di Brno.
Non sono estranee, tuttavia, influenze autobiografiche, tant’è che si ritiene di rilevare come modello deilla protagonista, la figura di Kamila Stösslová, amata dal musicista.
«Janácek si interessava alla melodia della lingua parlata; la sua era quasi un’ossessione: osservava il rapporto fra il significato delle parole e il loro suono. Quando camminava per le strade aveva sempre un taccuino su cui scriveva frasi brevi o solo alcune parole che sentiva, e insieme annotava le loro melodie e i loro ritmi. Questo gli ha fatto pensare alla musica, e specialmente alla musica vocale, in un modo molto diverso dagli altri».
E l’amore per quelle armonie basata su una scala di otto suoni, che però deve rinunciare alle diatonie, si è riversato nella cura della concertazione che il direttore musicale del San Carlo ha mostrato, creando un fluire di suoni continuo, ma tornito con grande eloquenza.
Kat’a Kabanová è un tragedia generata dal pregiudizio, dal rimorso, da conflitti edipici irrisolti, al punto che sembra scorgere Sigmund Freud seduto in un palchetto di proscenio annuire e prendere appuntii, annotazioni che non potranno giovare alla protagonista, che morirà suicida nei gelidi flutti del Volga.
Acuta la lettura del regista della produzione della Staatsoper di Amburgo ambientata in un tempo imprecisato, ma non remoto, con una scena unica e claustrofobica disegnata dallo scenografo Wolfgang Gussmann, che ha curato anche i costumi.
Preciso il bilanciamento tra buca e palco, sul quale ha brillato la recitazione e la scenicità di Pavla Vykopalová, che ha esibito una vocalità tanto espressive nel recitato quanto nelle frasi legate e più melodiche.
Sonora e duttile la prova di r Misha Didyk, nel ruolo dell’amante Boris e in bella evidenza per contrasto la recitazione di Lena Belkina  in Varvara contro una burbera Gabriela Beňačková nella parte di Marfa (Kabanicha), la cinica suocera di Kat’a, possessiva nei confronti del figlio e rivale della sua consorte il cui cadavere, nel freddo finale, sottrai ad un possibile e forse desiderato gesto di affettuoso perdono del marito Tichon, pregevolmente interpretato da Ludovit Ludha.
In un cast di livello si è distinta nel ruolo della serva Glaša, il mezzosoprano  Sofya Tumanyan, così come Paolo Antognetti  nella parte dello scienziaato Váňa Kudrijáš.
Il cast si è completato con Savël Dikoj (Sergej),  Donato Di Gioia (Kuligin), Francesca Russo Ermolli (Feklusa), Valeria Attianese (Žena) e Luigi Strazzullo (Muž); buona la prestazione del Coro diretto da Gea Garatti Ansini.
Lunghi applausi per tutti, da un pubblico che sarebbe ben dovuto essere più numeroso. E’ tuttavia un passo verso una internazionalizzazione dei repertori, necessaria per un grande teatro, costi pure qualche sbigliettamento in meno per una volta. Passa parola.

Mariapaola Meo

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