«Non mi ritengo più un cantante ma mi riaffermo attraverso i miei allievi, esisto quando loro sono in scena: essere scritturato e tornare a cantare dopo moltissimi anni di assenza dalle scene in “Tancredi e Clorinda” con direttore Diego Fasolis ed i suoi Barocchisti, per i meriti dei miei allievi che il direttore medesimo ha avuto modo apprezzare in concorso a Martina Franca è sicuramente una grandissima soddisfazione che rende merito all’impegno che profondo quotidianamente»
Sono parole del maestro Antonio Lemmo, protagonista putativo, con i suoi allievi, venerdì 7 dicembre sul palcoscenico del teatro Savoia di Campobasso, grazie ad una lodevole iniziativa benefica di Unitalsi, finanziata da numerosi sponsor, ha ospitato una selezione semiscenica dal Barbiere di Siviglia di Rossini.
Omaggio mai soprannumerario al compositore pesarese nel centocinquantesimo anniversario della scomparsa, la rappresentazione si è avvalsa del pregevolissimo accompagnamento al pianoforte del maestro Sabrina Troise, che ha messo in luce accanto alla sensibilità musicale di raffinata esecutrice, una grande ironia, che con Rossini non guasta mai.
L’evento ha visto inoltre la partecipazione straordinaria di Carmine Monaco d’Ambrosia nei panni del simpaticissimo fantasma di Bartolo recitante, che, sopperendo al taglio dei recitativi ha dato coerenza allo svolgimento dei principali numeri musicali dell’opera in questione e interagendo scherzosamente con i personaggi in scena ha fatto da collante e da raccordo per il dipanarsi della vicenda.
Tale formula, che vedrà i filologi storcere il naso, ha tuttavia il pregio di snellire ed alleggerire la trama ed avvicinare anche lo spettatore neofita o più riluttante.
Il baritono, reduce dai successi del Don Checco al teatro Politeama di Napoli, non è nuovo a questo genere di esperienza che lo ricongiunge, alle spalle una brillante carriera, ai suoi esordi di attore di prosa. Di livello il cast selezionato tra gli allievi del maestro Antonio Lemmo, che annovera accanto ad interpreti di comprovata esperienza, che hanno al loro attivo ingaggi nei principali teatri italiani ed esteri, giovani e talentose promesse della lirica.
Michela Antenucci soprano lirico dal timbro caldo è stata una Rosina appropriata e mai sopra le righe, il fraseggio impeccabile, la padronanza dei mezzi espressivi, le tinte della voce, hanno restituito un’esecuzione di altissimo profilo.
Nelle vesti del conte di Almaviva, David Ferri Durà, tenore lirico leggero dall’impasto vocale vellutato, dall’emissione accurata e dalla grande disinvoltura scenica.
Impeccabile il Figaro portato in scena da Pablo Rossi Rodino, che ha saputo calibrare squillo e corpo di voce in una sintesi equilibrata della perfetta tecnica vocale. Sensualissima, fasciata in un abito laminato dalla profonda scollatura che ha messo in risalto un generoso décolleté, la serva Berta del mezzosoprano Angela Fagnano; colore rotondo e vibrante, prontezza e grande simpatia hanno caratterizzato specialmente i suoi numeri col soprano.
Non ha deluso le aspettative il Don Bartolo di Enrico di Geronimo, cantante che, a dispetto della giovanissima età, ha già calcato palcoscenici importanti, e non ha omesso di stupire per i volumi calibrati e i precisi tempi scenici. Non ultimo il Basilio del basso Laurence Meikle, che ha confermato ciò che ci si aspettava da un artista di oramai chiara fama: volume e rotondità di suono sono state le frecce al suo arco che gli hanno consentito di mettere a segno un altro successo di artista.
A margine della bella recita il maestro Lemmo ha voluto aggiungere, quasi a volere essere per un attimo allievo anch’egli: «Il mio passato è di allievo di Rodolfo Celletti, di Renata Scotto, di Carlo Bergonzi e vincitore Aslico nel ’90, ma oggi sono tutto concentrato sull’insegnamento e cerco di fare onore alla scuola italiana di canto, che ha origini antichissime e annovera grandi maestri come Caccini, Porpora, Garcia»
Ma quando torna in cattedra, Lemmo si fa pungente, mai polemico: «Mi ispiro agli insegnamenti di maestro antichi ho approfondito la trattatistica in materia, trovando che troppo spesso in tempi moderni quella scuola sia stata dileggiata a vantaggio di presunte teorie di nuova generazione che poco di nuovo o di buono hanno da dire che non già sia contenuto nella disciplina impartita ai castrati nel ‘600 all’interno degli antichi conservatori o nei saggi specialistici che dall’800 fino agli inizi del 900 prescrivevano lezioni collettive di tecnica pura che gli allievi seguivano vivendo sotto lo stesso tetto di un maestro rispettatissimo che quasi idolatravano»
Convinto che parlato e cantato debbano coesistere, non condizionarsi, il maestro precisa: «I logopedisti oggi si improvvisano maestri di canto in maniera improbabile e a volte direi disonesta. Essi compiono un’operazione di potente mistificazione che non fa onore alla loro professione. Così come per imparare a suonare il piano non si va dal fisioterapista così per cantare non ci si rivolga al logopedista, egli limiti il suo intervento, quando è all’altezza di tale compito, a riabilitare un cantante che abbia un problema di sua pertinenza, non avendo mai egli sperimentato una tecnica efficace di fiato e non possedendo, di norma, certificate competenze musicali, ogni ulteriore intervento sarebbe un abuso. Tuttavia al cantante è utile avere una conoscenza dell’apparato fonatorio, ma senza focalizzare su anatomia e fisiologia un’attenzione che va invece rivolta all’arte»
Conoscenza e deontologia, nel magistero del canto, più ancora, forse, che in altre professioni devono tracciare il sentiero, così il didatta affonda il proprio pensiero critico: «Essendo la tecnica vocale così priva di riferimenti concreti, resta il terreno privilegiato di ciarlatani e maestri sedicenti tali, che, incuranti della salute e dell’interesse degli allievi, puntano al profitto sfruttando la credulità e facendo leva sull’ambizione nutrita a suon di grandi elogi e ripagata con moneta tintinnante. Una problematica vecchia quanto il mondo e già argomento di ispirazione della Dirindina di Domenico Scarlatti che i miei hanno portato in scena presso l’Auditorium di Ravello»
La progressività e la consapevolezza dei mezzi dell’allievo cantante, infine, diventano argomento conclusivo: «Affermo con convinzione che lo studio tecnico innanzitutto ci possa condurre ai risultati agognati e che non sia consigliabile approcciare le arie sin dalle primissime fasi di studio. La respirazione, i vocalizzi prima muti e poi in voce, la copertura del passaggio, il giro della voce sono tappe obbligate che ci conducono al disvelamento di quel meraviglioso e puro artifizio che è il canto impostato»
Ma ancora risuonano le scintillanti note rossiniane e Lemmo al compositore dedica il finale: « Tornando a Rossini, come il maestro lavoro sui vocalizzi che alternano A e U nella sequenza grave acuto, e adoro inventarne di nuovi personalizzati che, attingendo allo scherzo, posseggano quella carica di distrattori che mi conduce al risultato mirato vincendo le resistenze dell’allievo in lezioni intensive. Non amo parlare molto durante le mie lezioni, ogni parola evocativa di sensazioni, pertanto soggettive, rischia di ingenerare equivoci ulteriori e aborro quelle frasi fatte e piene di luoghi comuni e spesso prive di qualsivoglia significato, di cui i tanti sedicenti maestri prima citati amano riempirsi la bocca, malcelando la loro inadeguatezza” Quotidianamente i miei allievi mi insegnano qualcosa di nuovo su come poterli meglio guidare, qualcosa che prima di riproporre ho l’accuratezza di sperimentare su me stesso. È indispensabile comprendere che ogni voce ha una sua unicità che va esaltata e rispettata, l’assolutismo non è mai la risposta. Un maestro, a dispetto di tutta la sua competenza, deve avere innanzitutto due orecchie raffinate e una eccezionale memoria musicale, un’idea di bello con cui confrontare senza riserve ciò che ascolta in una lezione, come a suo tempo fu per il mitico Campogalliani»
Mariapaola Meo