L’inferno dell’altro. Il Grande Fallo 2.0

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Si potrebbe forse ascrivere la distopia al genere dell’umorismo, laddove l’iperbole e il parossismo narrativo conducono ad uno spazio ulteriore, collocato in un tempo a venire, e che funziona come “potenza del contrario”; ma non in direzione di una mera rêverie autonoma e fiabesca, quanto piuttosto per creare un rimbalzo nel presente: ritrovarsi nello spazio distopico è fare l’esperienza di un contraccolpo che, nella sua paradossalità, offre uno sguardo allungato sull’attuale, il quale ne guadagna in profondità.
Ed è esattamente quello che fa Milena Pugliese con il suo spettacolo Il Grande Fallo 2.0 andato in scena al Teatro ZTN di Napoli il 9 novembre 2018 (e replicato nei due giorni successivi).
Il doppio registro distopico da cui parte è la cifra di un canovaccio dolorosamente noto nella storia e che riappare in una versione intensificata e portata a maggiore evidenza proprio attraverso una sorta di parodia tragica: l’emancipazione della donna nel segno di un’acquisita capacità attraverso la tecnica (non un fallo anche questo?) di riproduzione della vita senza il supporto biologico dell’uomo, e la risposta consueta e classica del Maschio di ridimensionare e mortificare quella che a suoi occhi è da sempre percepita come un’onnipotenza.
Una eco di Lacan ci viene incontro: come si risponde di fronte a qualcosa dinanzi al quale ci si scopre deboli, smisuratamente inferiori? Gli si impone una legge, una regolarità, nel maldestro tentativo di controllarlo, di ridimensionarne il potere, di sottometterlo. È la storia dell’Uomo e del suo rapporto con la Natura, e mutatis mutandis dell’uomo nel suo rapporto con la donna. Ecco quindi che a governare l’insondabile, l’incomprensibile, interviene un potere anonimo, un Fallo senza volto né luogo, che impone il proprio registro simbolico, illudendosi di poter veicolare, condurre (un führer appunto) una potenza di cui il femminile è custode.
Roberta Misticone 
mette in scena tutto questo attraverso un dispositivo dialogico: due sorelle, rinchiuse nello spazio (simbolico anche questo) di una camera-monade in attesa di accettare o rifiutare il destino che il Grande Fallo ha loro assegnato, si confrontano e si scontrano nel tentativo di decidere se aderire al “Nuovo ordine sociale fallocratico” e accettare l’assegnazione di un maschio al quale sottomettere la loro esistenza e il loro desiderio, oppure resistere a quel fatale destino. Le posizioni delle due sorelle sono contrapposte: l’una incarna una sorta di servitù volontaria, che si rassegna al proprio destino nella speranza che quel che le viene offerto (l’uomo assegnato e che solo ha la facoltà di decidere se accettarla o meno) sia tollerabile e che il tempo possa rimettere le cose a posto; l’altra che non intende piegarsi e che insiste nel mostrare alla sorella il vuoto di un’esistenza fittizia al quale non ci si può arrendere.
Eppure il Grande Fallo ha previsto anche questo: pur ammettendo formalmente la possibilità di un rifiuto, ha concepito in quel caso una “riprogrammazione” della dissidenza, che non lascia scampo e che forzosamente riporta la donna al posto ideologico che le ha imposto.
Le posizioni delle due sorelle non sono tuttavia banalmente a tutto tondo: si articolano nelle loro fragilità, contraddizioni, ripensamenti, e tutto ciò offre un’idea efficace di quanto drammatico possa essere il confronto col potere: essere sé stessi (ma è mai possibile in generale?) richiede un sacrificio e un supplizio, che spesso non conduce ad alcun risultato, e che tuttavia diventa il destino inevitabile di coloro che non vogliono rassegnarsi al terrore. È in fondo quello che la donna ha subito per secoli, attraverso la mortificazione della propria esistenza, totalmente votata e devota all’uomo, la propria rappresentazione di essere mostruoso e minaccioso. Nietzsche diceva che la misoginia offre proporzionalmente una misura del senso di inferiorità dell’uomo: in questo senso la violenza che le donne hanno subito potrebbe essere pensata come una celebrazione tragica e risentita in una forma rovesciata. I due personaggi di questo spettacolo rappresentano forse un’identità doppia, composita, fatta di slanci e di ricordi, di errori e di ripensamenti, di aspirazioni e di nostalgie: forse questi due personaggi ci stanno dicendo che nel destino delle donne si iscrive, insieme a quello di ogni soggettività oppressa, la possibilità di proiettare l’umanità verso un destino ulteriore; e che sta alla donna tuttavia non cedere alla sua distopia di autonomizzazione dall’uomo, che risponderebbe ad una risposta meramente risentita e che cancellerebbe quello che c’è di più proprio nell’umanità: la sacralità dell’altro.
L’insieme narrativo si è retto attraverso una regia asciutta e attenta, che ha mescolato con grande garbo momenti naturalistici ad altri grotteschi e onirici. Movimenti essenziali, marziali e pienamente sposati al testo; composizioni indovinate (splendido il dialogo dietro le sbarre intercalato dalla luce intermittente che a turno le due attrici si offrivano).
Le prove attoriali hanno espresso un calarsi in questa articolazione ritmica molto efficace: a parte qualche leggera sbavatura all’inizio dello spettacolo (c’è da ricordare che era una prima), le due attrici hanno progressivamente guadagnato e colonizzato con grande efficacia lo spazio della sensazione, restituendolo nitidamente. Due meravigliose chicche le “estasi” notturne: la prima, di Roberta Misticone, che anticipa il parto della sua creatura (altro rinvio a Lacan e al fallo materno?), fondendosi ad essa nella voce che risuona come un canto dolce e regressivo; la seconda, di Marilìa Testa, che si avvolge in sé stessa come una berniniana Ludovica Albertoni disperata, agitandosi e gridando col corpo il suo desiderio, in una sorta di amplesso doloroso ma purificatorio.
I loro corpi si sono progressivamente offerti al sentire del pubblico, facendosi segno delle proprie sensazioni, persino quando nella marzialità dei precetti quotidiani volevano consegnare il loro grido muto di ribellione schiacciato dalla disciplina.
Scenografia giustamente pensata con essenzialità. Musiche ed effetti sonori ben inserite nel contesto drammatico.
Il Grande Fallo 2.0 di Milena Pugliese con Roberta Misticone e Marilìa Testa, voice off Marco Fandelli, Milena Pugliese, regia Roberta Misticone, scena Francesca Macor, costumi Emanuela Innocente, musiche Sergio Misticone, produzione Mirò produzioni.
Da non perdere.

Andrea Bocchetti

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