In una lettera del 7 settembre 1849 Verdi, che stava preparando per il teatro San Carlo la Luisa Miller in scena l’8 dicembre, nel proporre all’impresario napoletano “un’altra opera da andare in scena il giorno dopo Pasqua del 1850” lo invitava a segnalare al librettista del teatro, Salvatore Cammarano, “Le roi s’amuse” di Victor Hugo “bel dramma con posizioni stupende, e in cui avvi due parti magnifiche per la Frezzolini e De Bassini”. La proposta non ebbe seguito ma l’idea si riaffacciò allorché Verdi assunse l’incarico di comporre un’opera per la quaresima del ’51 alla Fenice di Venezia. Qui il poeta era Francesco Maria Piave, che al compositore aveva già dato quattro libretti e un quinto era in preparazione, quello dello Stiffelio per Trieste. La serrata corrispondenza con il poeta ci testimonia quanto il compositore fosse entusiasta e ottimista circa la possibilità della messa in scena. “Ora riandando diversi soggetti quando mi passò per la mente le Roi fu come un lampo, un’ispirazione e dissi la stessa cosa: “sì, per Dio non sbaglia” così a proposito della sua folgorazione per il soggetto. E ancora: “il soggetto è grande, immenso, ed abbi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche”. Dunque, facendosi perentorio: “appena ricevuta questa lettera corri per tutta la città e cerca una persona influente che possa ottenere il permesso di fare le Roi s’amuse”, ammonendolo di non lasciarsi persuadere “a fare trattamenti che portassero alterazione dei caratteri, al soggetto, alle posizioni” e senza dimenticare di mettergli paura: “tu avrai una grande responsabilità se per caso (che il diavolo non lo voglia) non si permettesse questo dramma”.
“In quanto al titolo quando non si possa tenere Le roi s’amuse, che sarebbe bello… il titolo deve essere necessariamente La maledizione di Vallier, ossia per essere più corto La maledizione. Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale”. Con tutto il suo ottimismo era dunque l’autore conscio che il titolo originale su di una locandina asburgica sarebbe stata stato azzardato.
Ma il Direttore Centrale dell’Ordine Carlo Martello comunicò il divieto alla rappresentazione voluto da Sua Eccellenza il Signor Governatore Militare Cavalier de Gorzowski.
Fu però lo stesso Carlo Martello a suggerire a Piave di epurare il libretto dai temi di criticità. Verdi ne fu deluso e, indispettito, per tutta risposta, chiese al librettista la restituzione del compenso già inviato e pattuito in 500 L.aus.
Un compromesso fu raggiunto quando il compositore acconsentì a variare luogo ed epoca dell’azione a patto però di “conservare le tinte i caratteri originali che il desidera”. In particolare, il “personaggio sostituito a Francesco” I, sovrano di Francia, un generico duca di Mantova “potrà essere libertino e padrone assoluto del suo stato. Il buffone potrà essere deforme come la desidera”. Fatte salve le tinte fosche che desiderava per le sue musiche, la decisone finale sul titolo cadde sul nome del protagonista, cambiandolo da Triboletto, traduzione “letterale” dell’originale Triboulet, a Rigoletto (dal francese rigoler, che significa scherzare).
L’opera pote’ finalmente andare in scena l’11 marzo 1851 con grandissimo successo. Il successo iniziale fu però più di pubblico che di critica, la quale non smise di sottolineare l’immortalità del libretto per lungo tempo ancora. E la paura della censura fu alla base di tutte le prudenti modifiche che oggi ritroviamo nei libretti, da presentare all’approvazione, stampati dei vari teatri italiani prima dell’Unità. Questa la ragione per cui le rappresentazioni al Teatro San Carlo del ’55, ’57, ’58 andarono in scena con il titolo di Lionello. Al Teatro Carolino di Palermo nella stagione ’52-’53, ad esempio, fu la stessa Gilda, invece di lasciarsi trucidare dalla lama di Sparafucile, a rivolgere il pugnale contro se stessa. Quando, nel 1857 l’opera approdò a Parigi, al Théâtre-Italien, Hugo cerco invano di impedirne la rappresentazione accusando Piave di plagio. Il suo dramma, all’indomani della prima del 22 novembre 1932 alla Comédie-Française, con ordine del Ministro competente (ordine illegalissimo, già che la nuova costituzione sanciva la libertà d’espressione l’abolizione della censura) fu sospesa. “Le roi s’amuse” non fu ripreso fino al 22 novembre 1882, ben cinquanta dopo e trenta da che l’opera di Verdi trionfava in tutta Europa.
L’orchestrazione realizzata dal giovane Verdi per Rigoletto, al suo ingresso nel novero dei grandi compositori del tempo, appena ricevuto il battesimo al Teatro San Carlo con Luisa Miller, se da un lato risente di echi donizettiani di Lucia, come testimonia l’uso dei flauti, nelle arie di ambientazione notturna, rivela altresì una maturità e una sapienza del tutto innovative nell’impiego dei legni e, soprattutto, come si è notato, nell’adozione del coro in funzioni strumentali e di colore.
Porre in scena personaggi e situazioni a dir poco a tinte forti come un deforme che nutre propositi di vendetta nei confronti di un nobile dissoluto e con una vicenda centrale di rapimento e seduzione di una vergine fu impresa audace e spregiudicata e la modernità dell’opera sta proprio nella circostanza che il confine tra bene e male non sia tracciabile nettamente nella psicologia dei protagonisti, nella coesistenza di luci ed ombre.
Il duca rivela, fin dalla prima apparizione la propria indole lasciva “Questa o quella per me pari sono”. E, anche se a inizio del secondo atto pare positivamente mutarsi, vinto dall’amore candido di Gilda torna ben presto alla sua natura deprecabile per consumare di lì a poco violenza sulla stessa ragazza. Verdi nella celebre aria del terzo atto “La donna è mobile” ha toccato il più alto grado di verità, mettendo in bocca al suo personaggio una canzone che doveva essere delle più comuni, poiché si cantava tra un bicchiere e l’altro e in un lupanare.
Il conte Monterone, la cui figlia è stata disonorata dal Duca, viene a reclamare giustizia ma deriso dal buffone gli si rivolge con parole raggelanti: “e tu, serpente, che d’un padre ridi al dolore, sii maledetto!” . Dal punto di vista musicale abbiamo, fin dal preludio, il ripetersi costante del tema della maledizione, tramite la ripetizione della nota Do in ritmo doppio puntato.
Il protagonista appare sconvolto dalle parole di Monterone al punto da ripetere quasi ossessivamente: “quel vecchio maledivami!”.
Egli stesso finisce così per dare attuazione, come una profezia che si autodetermina, a quel destino sventurato che percepisce connaturato alla sua deformità e di cui la giovane Gilda finisce per diventare inconsapevolmente strumento.
Rigoletto, pur commuovendoci per il dolore di padre, non riesce a mostrarsi a noi come positivo; la metafora della gobba rappresenta la sottomissione al potere, il servilismo a cui non ci si dovrebbe opporre con la “tremenda vendetta” bensì riscattando la propria dignità di uomo libero. Egli antepone l’odio verso il mondo all’amore per se stesso, e ciò conduce alla perdizione e alla tragica fine proprio l’unico oggetto d’amore della sua vita. Amore di cui non si sente meritevole “Ella sentia, quell’angelo, pietà delle mie pene… Solo, difforme, povero, per compassion mi amò”, al punto da spingere la figlia ad una identificazione con la madre nel destino di prematura scomparsa.
Come fa notare con arguzia il critico Dario Ascoli: “Se una donna sa amare un “difforme”, fino alla fine della propria vita, sulle cui cause Piave non ci informa, un’altra, sa amare un empio, moralmente “difforme”, anch’essa fino al sacrificio della propria vita, che avviene nel momento stesso un cui Gilda si assimila al suo amato condannato dalla vendetta paterna: si tratta di un rito quasi nuziale, un’identificazione che ha il sapore di una congiunzione ideale e un’acquisizione di casato”.
Questa opera di intramontabile bellezza, non smette di invitarci a riflettere sul tema dell’accettazione di noi stessi, dei nostri limiti e sulla capacità di autodeterminazione del nostro destino.
Mariapaola Meo