All’indomani del fiasco della prima assoluta andata in scena al Teatro de La Fenice il 6 marzo 1853, da cui Verdi si disse tra l’altro non turbato, Cesarino De Sanctis propose al musicista una diversa piazza: Napoli, ma il compositore gli rispose: «Ah! Vi piace La traviata? Questa povera peccatrice così sfortunata a Venezia! Cercherò bene di metterla all’onore del mondo. A Napoli no, perché i vostri preti ed i vostri frati avrebbero paura di vedere sulle scene quelle certe cose che essi fanno bene all’oscuro»
Ed infatti una storia di cortigiane e soprattutto di loro “nobili protettori” era stata a provocare una inconfessata indignazione da scomoda identificazione e un manifesto disappunto nel pubblico dei benpensanti veneziani. E nonostante la censura, che aveva innanzitutto obiettato il titolo originario di “Amore e morte” concordando stranamente per il ben più allusivo ed esplicito “La traviata” probabilmente con funzione di condanna moralistica, avesse inoltre imposto che l’ambientazione fosse anticipata di un secolo, trasformando in questo modo un melodramma cronachistico in una tragedia storica e cercando, in tal modo, di stemperare la provocazione, erano evidenti la derivazione dal contemporaneo lavoro di Dumas figlio e lo stile musicale e poetico dichiaratamente ottocentesco. Comunque sia, il 6 maggio del 1854 al Teatro San Benedetto, sempre a Venezia, ma con un cast rinnovato “La traviata” “fece furore”.
Verdi, più ancora che Dumas figlio con “La dame aux camelìas”, consegna ai posteri il dramma di Alphonsine Plessis, una cortigiana 23enne legata a molti intellettuali del suo tempo e allo stesso suo letterato e biografo.
“Alla musica spetta il compito di evidenziare il contrasto tra la dimensione mondano-sentimentale e quella cupa, foriera di morte, di moralismo e rinuncia; in questa contrapposizione si manifesta la vera forza innovativa del romanticismo di Verdi: non la passione che conduce alla catastrofe e alla morte, quanto piuttosto l’emarginazione prodotta dall’ipocrita perbenismo e dal pregiudizio. Il simbolo della frivolezza tragica della borghesia ottocentesca è quel valzer che, ora in scena, ora come riferimento fuori scena, ora come elemento ritmico dominante, ora come simbolo contrastante, accompagna l’intero svolgersi del melodramma” (Dario Ascoli)
Ed infatti, sul preludio iniziale che espone subito il tema “della morte di Violetta” il sipario del San Carlo nella messa in scena di Lorenzo Amato, si apre mostrando una pioggia battente, che continuerà fittamente a cadere, senza soluzione di continuità per tutti e tre gli atti, e su quella che parrebbe la scena di una sepoltura e si rivela un macabro cibarsi della dignità di una donna, tutto concorre alla resa del presagio funesto di una fine ineluttabile che aleggia sulla vicenda, annunciata fino dall’incipit.
Poi il repentino cambio musicale e la giovane che giaceva si ridesta, l’ambientazione diventa subito quella festaiola del salotto di casa Valéry, accuratamente descritto da Piave: porte su ogni lato e, sulla sinistra un caminetto ed uno specchio. A proposito di quest’ultimo elemento assai ricorrente, possiamo forse dire che abbia contribuito ad ispirare le scenografie di Ezio Frigerio, infatti attraverso la parete trasparente di pioggia, si scorge sul fondo, su pannelli di tela dipinta, come in un gioco di riflessi, l’interno stesso del teatro con il Palco Reale raddoppiato. Il risultato è quello di catapultare immediatamente lo spettatore all’interno dello spazio scenico rendendolo partecipe, se non moralmente complice, della vicenda di Violetta più che osservatore. Del resto, il coro di invitati ed ospiti, incarnazione di cinismo, perbenismo e corruzione, è vissuto dalla protagonista con una marcata ambivalenza: «Se nella prima parte se ne fa scudo, una volta provata quella gioia a lei sconosciuta … “un serio amore… essere amata amando!” , a fine atto lo immagina e lo percepisce come un plotone che le avanza contro minaccioso per riportarla inesorabilmente al suo destino», spiega il regista Lorenzo Amato.
Racconta Amato come il suo lavoro sia scaturito da un ascolto emozionale, alla cui base c’è l’introspezione del personaggio femminile forse più celebre della storia del melodramma: quasi una “soggettiva” di Violetta, personaggio tormentatissimo che nel suo percorso di redenzione, attraverso la sofferenza, ha bisogno per cambiare vita di credere agli slanci adolescenziali di Alfredo, alle lusinghe del vero amore a cui si immola.
Del resto i due protagonisti maschili, nonché chiunque orbiti intorno a Violetta, vivono esclusivamente di luce riflessa, come si conviene alla natura del monodramma. E proprio in questa direzione va anche la scelta strumentale del «suono frusciante e lucente del quintetto degli archi», cui sono affidati i momenti più intensi e che «contribuisce a collocare la Traviata in spazi sonori ma anche fisici ristretti, intimistici» sostiene Daniele Spini.
E ancora, la qualità delle idee melodiche è funzionale alla caratterizzazione dei personaggi, ciò è assolutamente evidente in Violetta che passa dal virtuosismo dell’ostentazione frivola al lirismo dell’introspezione, allo slancio dell’illusione in una rispondenza perfetta tra scelte stilistiche e funzioni drammatiche. La modernità e il successo dell’opera non sono certamente da ricercare nel soggetto scandaloso frutto della recezione dell’archetipo della cortigiana più o meno di buon cuore (Marion Delorme o Manon Lescaut) quanto nella sua resa in termini sostanzialmente e naturalmente spogliati dalla retorica grandiosa del melodramma ed inoltre, nelle nuove forme di un canto capace di oscillare senza soluzione di continuità tra una melodia espansa e generosa e una recitazione sillabica e rapida, che non prevedeva la successione dei “numeri tradizionali” e dei pezzi chiusi.
Nella Parigi del bue grasso, sullo sfondo dei chiassosi e volgari festeggiamenti per il Carnevale, si staglia la figura eterea e trasfigurata di Violetta, consunta dalla malattia e dall’attesa dell’amato, e la storia si avvia alla sua ineludibile conclusione, quasi condotta a termine come missione, da quelle tetre figure che sin dall’inizio vi avevano fatto capolino.
La recita di cui si dà recensione è quella del 20 giugno 2018, che ha concluso questa lunga permanenza in cartellone del capolavoro verdiano.
Promossa a pieni voti, dopo un ingresso incerto, Aleksandra Kubas-Kruk, soprano dal colore tondo ed omogeneo, che ha saputo rendere con partecipazione emotiva i tormenti della protagonista, timbro chiaro e buoni i volumi di Francesco Demuro, convincente anche nell’interpretazione del ragazzotto di provincia e un po’ egoista Alfredo, ineccepibile vocalmente il baritono dal colore pastoso Amartushin Enkbat nei panni di Giorgio anche se a tratti granitico nell’espressività, buona la prova del baritono Alessio Verna nei panni dell’antagonista mediocre barone Douphol, disinvoltura e ottima presenza scenica quella del giovane tenore Lorenzo Izzo nei panni di Gastone, meticolosa Gabriella Colecchia nel rendere ed esaltare gli aspetti più civettuoli e vanesi della dama Flora cui il marchese D’Obigny Nicola Ebau cerca maldestramente di tenere testa, bel colore vocale per Laurence Meikle nei panni del premuroso dottor Grenvil, solo precisa e adeguata la Annina di Michela Petrino.
Ottima la direzione e il fraseggio di Maurizio Agostini sotto la cui bacchetta l’Orchestra ha saputo rendere giustizia alla partitura verdiana. Il Coro preparato dal Maestro Faelli, all’ennesima recita è parso in scena lievemente scoordinato ed è un peccato che i numerosi errori ritmici durante le coreografie fossero anche decisamente evidenti.
Con la direzione dai tempi più dilatati , anche nei preludi, di Jordi Bernacer del 15 giugno, abbiamo ascoltato Claudia Pavone interpretare una Violetta dalla voce più appuntita, espressione di volontà di vivere più che della tragedia imminente; nobile come se decaduta perché travolta dl ascesa della nuova classe borghese, invece, l’elegante ed espressiva senza mai perdere aplomb Flora di Elena Traversi.
Le luci profondamente atmosferiche di Fiammetta Baldiserri e i costumi disegnati da Franca Squarciapino hanno concorso alla realizzazione di “un’atmosfera sognata ed irreale” su cui dopo mesi di successi è calato il sipario.
Mariapaola Meo