Il testo di Manlio Santanelli, REGINA MADRE per la regia di Carlo Cerciello, visto l’8 giugno nell’ambito del NTFI2018 al Teatro Nuovo attraversa una tematica classica, quella del dramma familiare segnato da un conflitto che ruota intorno a due genitori e due figli; ma in verità, tutto si muove intorno ad una madre sovrana (Regina, Nomen omen), che si accompagna ad un padre, presente in scena e narrativamente solo come evocazione. Quest’ultimo, morto anni addietro, interviene unicamente come supporto simbolico di un potere, quello materno, che per trovare la propria consistenza ha bisogno di idealizzare il morto (una eco di Totem e tabù?).
Il dramma si svolge quindi nel regno della Madre-Regina, un regno che inizia a vacillare in ragione delle sue condizioni di salute che, nella diagnosi del medico, la condurranno presto alla morte. È un regno tirannico, di una madre castrante e distante, che non si concede mai, se non per sottrazione (che sembra cioè dire “datemi un segno del vostro amore: ne ho bisogno per rifiutarlo”). Lo spettacolo sembra articolarsi in due atti, pur non esprimendosi direttamente in questo senso.
Gli attori incarnano i tre personaggi in modo alternato, rimodulando di volta in volta il tenore della conversazione, a seconda della coppia che si produce.
Il primo “atto”, più lineare, è segnato da un dialogo madre-figlio, tutto avvolto intorno all’irruzione-ritorno nella casa materna del figlio, corso in aiuto della madre dopo le cattive notizie ricevute dal dottore. Il dialogo si svolge su un tono che scivola continuamente nell’umoristico (in questo caso, letteralmente come potenza del contrario), e qui gli attori offrono una grande prova di padroneggiare entrambi i registri in gioco, quello del dramma e quello della commedia. Il figlio cerca di rincorrere l’affetto della madre, che di contro non smette di rivendicare, nell’autonomia e nella indipendenza, il suo statuto di sovranità, impermeabile al bisogno, anche in punto di morte; e riaffermando, cinicamente, l’inadeguatezza del Figlio nei confronti del Padre: mai potrà prendere il suo posto, nemmeno per allusione (nel prendersi cura). Di qui, dietro le apparenze di una simpatica burbera, si intravede tutta la violenza di un materno che non cede spazio, che neutralizza qualsiasi azione che vada in direzione di un’autonomia; una madre che non vuol farsi donna e che “incide” nel destino del proprio figlio per annullarlo, impedendo che diventi uomo (e padre a sua volta). Il secondo atto, più composito, in cui i tre personaggi si incarnano di volta in volta nei due attori, rappresenta una lenta caduta nell’abisso, accompagnata dalla messa in forma di una scenografia (fin lì rimasta quasi del tutto neutra) che disegna lentamente una gigantesca culla che circonda e imprigiona il figlio nel suo destino, quello regressivo che conduce al natale e poi al pre-natale inorganico: la morte. Il contrasto si diffonde, includendo anche la figlia, che rimane forse troppo nello sfondo, creando un vortice in cui la voce del figlio guadagna volume quanto più si approssima alla disperazione. Nemmeno il gesto estremo di “fare a pezzi” la madre, denunciando il suo passato amoroso asettico (il padre è solo un’altra vittima), svelando dietro le sue mitiche narrazioni, una finzione tanto candida quanto crudele, che ha inteso omettere un eccidio affettivo che non ha risparmiato nessuno, ottiene il risultato dell’evasione. Tutto, nel regno della Madre, è destinato allo scacco, alla caduta, all’impotenza. Spettacolo riuscito: un’ottima prova attoriale; una scenografia di grande talento immaginario; una regia sobria ed estremamente efficace. Da vedere.
Con Fausto Russo Alesi e Imma Villa, scene Roberto Crea, costumi Daniela Ciancio, musiche Paolo Coletta, luci Cesare Accetta, aiuto regia Walter Cerrotta, produzione Elledieffe e Teatro Elicantropo.
Andrea Bocchetti
Foto Salvatore ©