“Casa di bambole”, l’ultima creazione scenica di Sissi Abbondanza, ha debuttato lo scorso 14 e 15 aprile, in occasione de Il Teatro dei Chille. Per la rassegna, tenutasi dal 10 al 22 aprile, si è potuto assistere a sei spettacoli della produzione teatrale di Chille de la Balanza, storica compagnia, napoletana d’origine e toscana di adozione, che dal 1998 è presso San Salvi, ex-città manicomio di Firenze, con la sua casa-teatro.
Trovando ispirazione dagli scritti di Ingeborg Bachmann, Sissi Abbondanza ha indagato le piaghe del dolore e della solitudine di una delle autrici più apprezzate della letteratura in lingua tedesca del secondo dopoguerra, rigenerando la sua vis poetica, in teatro, attraverso il corpo. Se Antonin Artaud scriveva che “il teatro è lo stato, il luogo, il punto, in cui afferrare l’anatomia umana e con essa guarire e dominare la vita”, la messinscena di Casa di bambole ha radici profonde nel verbo artaudiano.
Il cubo fatto di canne di bambù, la scena ideata da Sissi Abbondanza e Paolo Lauri, all’interno del quale agisce la parola della Bachmann, è la casa, perimetro che segna la sfera d’intimità della poetessa, ma anche recinto entro il quale il suo linguaggio interiore è rinchiuso.”Una devastazione. Il vuoto dopo l’assoluto”, queste le parole pronunciate dal personaggio che quel vuoto si trova ad abitarlo. La donna è immersa nel vuoto che è, appunto, la sua devastazione, dopo che gli amici di sempre sono andati via e l’hanno lasciata sola. Sola con se stessa. Una se stessa frammentaria e frammentata in tre dimensioni: il corpo, la voce e i suoi pensieri.
È nell’incontro tra queste tre dimensioni che lei comincia, maieuticamente, a far emergere la verità del suo essere e del suo percepire. La sua voce intrusiva la costringe ad affrontare il passato e a ritrovarsi nella memoria; a liberarsi dalla costrizione del rapporto con il suo uomo, in cui la dedizione e l’amore hanno smarrito i confini della loro essenza fino a diventare abnegazione; a uscire fuori da quella gabbia che si è costruita, ma che non può distruggere, perché è estensione della sua stessa carne.
Un incontro-scontro, quindi, in cui l’azione è mostrazione dell’alfabeto corporeo che come argilla in scena è forgiato da Sissi Abbondanza. Esso diventa simbolico quando la voce dei pensieri fa affiorare alla mente i ricordi di ragazza; mentre resta materia incandescente quando a dettare i movimenti è la sua nemica, la voce interiore.
La donna è quasi forzata a danzare da quelle parole che non vuole ascoltare, sulle musiche di Hans Werner Henze che, nel percorso di creazione della scrittura scenica, riproducono l’ideale ricongiungimento artistico tra il compositore e la Bachmann.
La donna è catapultata in mondi lontani da lei, nelle immagini proiettate. Quelle di Metropolis di Fritz Lang sono la moltiplicazione della casa, il carcere dove lei già si trova e di cui è prigioniera; l’esplosione della scena finale di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni è sintomo del cambiamento e della ribellione intestina che sta vivendo; il Giardino dei Tarocchi rappresenta le visioni mostruose create dagli altri.
Il disvelamento dell’assoluta necessità di conoscere o ri-conoscere se stessa passa, oltre che per la negazione di sé, anche per la negazione degli altri, dell’esterno e della società, nella dimensione in cui essi hanno la presunzione di imporsi con i loro codici sulla sua volontà. “Voglio essere libera, così libera da poter essere indotta in tentazione, ancora una volta, una tentazione così grande da assumerne la responsabilità ed esserne dannata”. La tentazione e la dannazione di Ingeborg Bachmann è la libertà. E libera, in uno stato di apparente follia, la follia che appartiene a tutti di vedersi altri da sé e di ritrovarsi – forse – s’incammina verso la se stessa rinnegata, pronta per un sincero dialogo allo specchio con la sua ombra.
Antonella D’Arco
Foto Paolo Lauri ©