Al Teatro Genovesi di Salerno è andato in scena domenica 25 febbraio 2018 lo spettacolo Bravo pour le clown, scritto, diretto e interpretato da Luca Morelli, terzo degli appuntamenti della rassegna Festival Teatro XS Città di Salerno. E’ la struggente voce di Edith Piaf ad introdurre le atmosfere di cui si nutre lo spettacolo, un misto di stupore e nostalgia che si insinua nel buio della sala, mentre le note dell’omonimo brano Bravo pour le clown, successo del 1953 della grande interprete francese, accompagnano il protagonista nel suo ingresso sulla scena. Avanza con andatura lenta, lo sguardo malinconico è rivolto ad un orizzonte indistinto, forse ad una presenza fuori campo con cui condividere i ricordi di un teatro che ha vissuto momenti felici ed ora rischia la chiusura. Un’ora tra monologhi, clownerie, inserti visivi proiettate sulla scena, giochi di intrattenimento e di mimica, l’ambientazione di un teatro polveroso, con vecchi costumi ammonticchiati in un angolo e un appendiabiti che regge una bombetta nera ed un soprabito colore rosso, di lato una vecchia valigia di pelle, sono tutti ingredienti che ricordano la figura del clown. Il protagonista evocherà la magia e la bravura di un grande del circo, Grock il clown svizzero nato nel 1880 e morto ad Imperia, in Italia, nel 1959, con un omaggio anche all’arte del fare teatro interpretando il famoso monologo del naso del Cyrano di Bergerac. Ma il naso più famoso del teatro di tutti i tempi traghetterà lo spettatore al naso rosso e posticcio del pagliaccio, personaggio ingenuo e maldestro, molto abile a far divertire il pubblico, con quel suo essere senza età e senza tempo, sempre pronto a dare sfogo alle sue emozioni e ridere delle proprie debolezze. Luca Morelli sceglie il più grande clown di tutti i tempi, Charles Adrien Wettach detto Grock, artista di circo e di music-hall, per rendere omaggio a quel mondo quasi del tutto trascorso, in cui si poteva iniziare come illusionista e funambolo nel circo, fino ad essere consacrato nel 1919 all’Olympia di Parigi come il Re dei clown. Era successo proprio a Grock che amava dire con malcelato orgoglio “…il mio nome di nascita non conta. Io sono Grock. L’altro è il nome degli anni oscuri…”. I brevi inserti audiovisivi di una delle gag più celebri di Grock, quella del ‘piccolo violino’, e spezzoni del lungometraggio che Federico Fellini realizzò nel 1970 per la televisione, raccontando biografie di celebri pagliacci e ricordando l’infanzia che gli regalò l’incantesimo del circo che lo accompagnerà tutta la vita, sono testimonianze reali di un’età dell’innocenza, nella quale il pubblico affollava i circhi ed i teatri, divertendosi con semplicità. Eppure dietro ogni clown, dalle movenze goffe e dall’abbigliamento stravagante, si nascondeva una vera e propria arte teatrale, che in questo teatro in dismissione Luca Morelli, malinconico vecchio custode, immagina di fare rivivere con un ultimo spettacolo da regalare ad una ideale platea, prima della chiusura definitiva, dovendo il teatro fare spazio ad un centro commerciale. Lo spettacolo ha mescolato ingredienti diversi, facendo della sincerità delle emozioni la sua cifra. Finzione e realtà si sono rincorse, in una sorta di continua acrobazia scenica, che ha esaltato le qualità attoriali del protagonista, ma il ricco potenziale poetico della situazione non è riuscito a venire fuori nel modo più emozionante e coinvolgente. La composizione ha faticato a trovare unità, le diverse scene non sono apparse legate da una tensione comune capace di giustificarne la successione drammaturgica, perdendo la narrazione di ritmo e di chiarezza. Resta la prova generosa del suo protagonista, la sua ottima sintesi mimica e la sua versatilità attoriale, per un’ora di spettacolo nel complesso godibile, con diversi ammiccamenti al pubblico. L’attore cercherà di coinvolgere ed includere nella scena il pubblico, ci saranno momenti di sorriso, come per il buffo numero musicale dei campanelli dai diversi colori, fatti tintinnare da spettatori chiamati sul palco e diretti dal nostro clown improvvisatosi direttore d’orchestra. Un tocco di poesia è nella scena finale, in cui il protagonista è alle prese con una luce proiettata sulla parete, che saltella e sfugge alla presa con una bacinella blu, fino a quando non riuscirà a prenderla, divenendo metaforicamente custode di un’arte che certo non si spegne per un teatro che chiude. C’è tanto eppure non è bastato per fare decollare veramente lo spettacolo, che ci si aspettava più lirico, poetico e divertente, apprezzabili tocchi fantasiosi non mancano, il tutto secondo quell’arte di commuovere e far ridere che è la magia stessa dell’essere clown, per questo restiamo, in fondo, non del tutto convinti.
Marisa Paladino