La stagione di balletto del Teatro Comunale di Bologna si presenta al pubblico con un titolo suggestivo: Petrushka.
Già dalla presentazione del programma abbiamo atteso con molta impazienza questa data.
Le composizioni del musicista russo sono di certo tra le più incredibili pagine del novecento. “Questo si spinge più in là di Riminskij” scrisse Ravel dopo aver ascoltato L’uccello di fuoco. E fu subito un tripudio, tanto che uno sconosciuto Stravinskij divenne subito una celebrità. Finalmente anche un visionario come Diaghilev aveva trovato il suo Alter-Ego musicale e non paghi del successo, i due si misero subito a lavoro per realizzare un secondo balletto. Petrushka è la storia di un pupazzo animato che si esibisce ad una festa popolare russa. Il coreografo Michel Fokine immaginò una scena antitetica al balletto accademico. Movimenti fluidi e naturali che si sostenessero con la musica, fatta di temi che irrompono dal nulla e di contrappunti continui che citano la goliardica confusione della festa. L’insieme è un caleidoscopio di emozioni. Fu un successo tanto che le critiche del tempo elogiarono il lavoro: “Elimina, chiarifica, sceglie solo le note rivelatrici ed essenziali…la sintesi delle arti senza la magniloquenza wagneriana”, niente male per un giovane musicista.
Abbiamo avuto molti dubbi e ripensamenti prima di deliberare un giudizio autentico sulla rappresentazione bolognese. La coreografia di Virgilio Sieni è coraggiosa, a tratti ermetica. Il coreografo sceglie di tagliare il filo con la tradizione e la narrazione degli eventi si dissolve nella visione scenica realizzata per la compagnia fiorentina. Potremmo raccontare la storia originale di Petrushka ma non troveremmo alcun riscontro in questa messa in scena così essenziale e ossea. La vicenda originale non esiste più e i personaggi originali sono stati sostituiti da sei burattini semi-umani fin da principio, vestiti di abiti morbidi e trasparenti. Le forme spigolose degli interpreti principali, le trasparenze e la gravità morta della danze trasmettono subito una tensione verso la carnalità che non si compie mai del tutto. La musica è il filo che sostiene i burattini che cadono a peso morto quando questa si interrompe per poi rivitalizzarsi seguendo la dinamica strumentale. Interessante.
Sieni rilegge questo titolo in modo contemporaneo e la vicenda resta sospesa, come un burattino. La scenografia richiama un teatrino. Tre grossi teli trasparenti compongono le pareti di una grossa “stanza” vuota che definisce lo spazio scenico. Non ritroviamo nulla che ci ricordi la festa russa eppure ci piace questa tridimensionalità e questa profondità geometrica. Sembra di avere davanti un vero e proprio teatrino di burattini. Non è più rappresentato l’evento festa ma siamo difronte ad una delle sue attrazioni. Stiamo assistendo alla festa nella festa.
Il rigetto della chiave narrativa può disorientare al punto che non riusciamo più a seguire la scansione dei quadri originali. Eppure ritroviamo nella coreografia il messaggio autentico del titolo: la tensione verso l’umanità è continua e pulsante. <<Petrushka –scrive Sieni nelle note al programma- è una marionetta e non è una marionetta, convive nei suoi mondi, nelle due visioni e esperienze, trascendendo l’esistenza dell’uomo >>. In definitiva, Petrushka è un uomo che si dimentica di esserlo e si lascia guidare dagli eventi (musicali) con movimenti nervosi per poi riacquisire sprazzi di armoniosa umanità.
Alla fine non sappiamo cosa pensare. Resteremmo “scandalizzati” per questa rilettura apocrifa se non fosse che quel che abbiamo visto ha catturato l’attenzione fino a piacerci. Se dobbiamo trovare un neo, evidenzierei una certa ripetitività coreografica sebbene sia i soli che i passi a due siano piacevoli e interessanti.
L’orchestra del teatro Comunale diretta da Fabrizio Ventura fa un ottimo lavoro. Forse ad essere pignoli talvolta la troviamo debole negli ottoni dove la poetica stravinskiana è solitamente un tripudio di scintille che brillano ritmiche nel cielo scenico. Ma sono piccolezze.
Non condividiamo un riscontro del pubblico di certo non positivo. Da un lato è comprensibile storcere il naso difronte a stravolgimenti narrativi. D’altro canto è necessario che un pubblico contemporaneo si svezzi ed emancipi da convinzioni incartapecorite. La crescita di un teatro passa anche attraverso la crescita del suo pubblico. Non è, però, una promozione a pieni voti.
Sintetizzando, si consiglia questo spettacolo a chi, pur conoscendo bene il balletto, desidera esplorarlo da un’angolazione diversa. Per gli altri mi sentirei più sereno a suggerire rappresentazioni più ortodosse.
Il balletto è preceduto da un componimento orchestrale del compositore Giacinto Scelsi, Chukrum del 1963 per orchestra d’archi. Anche questo è costruito in quattro quadri.
Il compositore, appassionato di canti tibetani cercò di ricreare le stesse atmosfere basate su intervalli microtonali vitalizzati da espansioni e contrazioni sonore, come una voce che attraversa il diaframma. L’esecuzione viene accompagnata da un momento coreografico con danzatori che si muovono dietro a uno schermo opaco che permette di distinguere le forme solo quando i corpi sono vicini per poi sfumare in ombre con la lontananza.
Questo utero scenico incorniciato da questa placenta opaca rende perfettamente l’idea della gestazione. Il tutto è interessante ma noioso, anche per via della partitura dodecafonica che in queste continue deflagrazioni musicali e incidentali sonori estremamente rarefatti ha un forte impatto emotivo ma poca pulsione ritmica. Sebbene gravida non è stata poi così tanto in “stato interessante”. La dodecafonia è una “religione” musicale per cui la piacevolezza della musica non è importante quanto la funzione stessa del linguaggio musicale e dell’evoluzione dello stesso. Parlare di dodecafonia e ridurla al semplice “ti è piaciuta?” è fuorviante per una corrente che ha dato nuova linfa a una lingua, quella musicale, che sembrava- ad un certo punto- non aver altro da dire.
Ci abbiamo pensato un po’ prima di esprimere un giudizio, ma alla fine bisogna applaudire perché la scelta del TCBO di mettere in scena una Petrushka interessante assieme a una partitura dodecafonica poco nota è segno di grande apertura.
Forse troviamo nel budget la necessità di una scelta coreografica essenziale quasi striminzita ma non possiamo proprio dire che questa messa in scena non ci sia piaciuta.
Ciro Scannapieco