“Avrei ballato tutta la notte ” recita un celebre brano di My Fair Lady, musical che ha debuttato martedì 6 febbraio al Teatro di San Carlo, ma è nella luce che non conosce notti che da qualche ora prima del sipario aveva iniziato a danzare Elisabetta Terabust, etoile e maître che tanto ha dato al Massimo napoletano e al mondo intero, senza che però una sola frase fosse indirizzata alla sua memoria dal palco che fu suo.
Non molti tra gli spettatori avranno potuto cogliere gli strafalcioni dello slang che il libretto impone a Eliza Doolittle, personaggio protagonista in My Fair Lady, alle prese con la formazione linguistica impartita dal misogino professor Higgins.
Scegliendo opportunamente l’edizione originale inglese, sottotitolata, la produzione del Teatro San Carlo realizzata insieme con il Massimo di Palermo ha risparmiato a tutti quel dialetto inventato, tra il pugliese, il ciociaro, il napoletano, il romanesco e chissà quale altro, posto sulla bocca di Audrey Hepburn dal doppiaggio italiano del film del 1964.
Una parlata, quella della fioraia, che, più che simpaticamente proletaria, risultava urticante e lesiva della nobiltà dei singoli idiomi regionali. Che sia sempre lingua originale in un teatro d’opera!
My Fair Lady è commedia del cambiamento, come denunciano le origini dal Pigmalione di Ovidio, il quale pure una cornice musicale suggeriva, passando per quello di G.B.Shaw; un mutare che è opzione riformista contrapposta a quelle rivoluzionarie e che propone un perfettibile sociale al riparo da ogni caducità e ribaltamento. Modello di conservazione tout court anglosassone che annuncia il sogno americano, approdando all’altra sponda atlantica.
Non a caso i periodi di successo del testo teatrale, come del musical e delle versioni cinematografiche, coincidono con i tormentati anni di passaggio che precedono le due grandi guerre, 1913 e 1938, rispettivamente per Shaw e Lerner, e con gli anni di guerra fredda agli albori del ’68, per il film di Cukor.
L’approdo del musical della fioraia Doolittle ad un tempio dell’Opera conserva il fascino contraddittorio di proporre una novità che ha il rassicurante profumo della conservazione, mentre turbolenze razziste e populiste percorrono il globalizzato mondo del terzo millennio.
La protagonista Nancy Sullivan ( Eliza Doolittle) ha la fisionomia minuta che ricorda Audrey Hepburn, ma a differenza della mitica attrice di Vacanze Romane, l’interprete inglese prende su di sé l’intero onere del ruolo, senza ricorrere a peraltro quasi impraticabili doppiaggi canori e, pur rivelando voce sottile e adolescenziale, è efficace nel complesso e animata da argento vivo scenico.
Attempato al punto giusto, l’ Higgins di Robert Hands possiede la giusta cifra British così come John Conroy caratterizza la rigidità militaresca del colonnello Pickering che nell’ immaginario rimanda al graduato impersonato da Walter Pidgeon al fianco di Totò.
Affiatato, l’intero cast risulta ben disposto sulla scena da Curran e la bacchetta di Renzetti mette in mostra insospettati scatti che si direbbero provenire dal passato da percussionista del maestro abruzzese, il quale conduce con misura e forse persino eccessiva eleganza, ma tutto sommato che senso avrebbe rappresentare in una grande Opera House un musical se non lo si leggesse musicalmente con la stessa cura con cui si affrontano le più raffinate pagine del repertorio operistico?
Bella recitazione di Martyn Ellis (Alfred P.Doolittle) e franca vocalità tenorile per Dominic Tighe (Freddy Eynsford-Hill).
Scene e costumi ci trasportano in una Londra inizio ‘900, tra tazze di the e calici di Porto e in quel contesto il Coro, diretto da Marco Faelli, si muove riuscendo quasi ad amalgamarsi tra le eleganti coreografie di Kyle Lang, nelle figurative e rapidamente succedentesi scene di Gary Mc Cann in cui hanno fatto sfoggio i costumi di Giusi Giustino.
La componente classista e sessista è troppo insita e distribuita nel musical di Lerner e Lowe e gli sforzi di Curran di imprimere una lettura che ponga in risalto un percorso di emancipazione della donna finiscono per frenare la narrazione sbiadendo la tinta detestabilmente conservatrice Old England.
Il pubblico, anche se provato dalla lunghezza e dai lunghi dialoghi recitati, alla fine applaude convinto.
E il velario del Cammarano, austero da lassù non ha avuto troppo di che storcere il naso: in fondo si è risparmiato un recital-panettone nemmeno troppo tempo fa.