Non si può certo negare che le ultime recite 2017 targate TCBO abbiano lasciato l’amaro in bocca agli appassionati melomani. Il periodo natalizio, si sa, spesso propone e ripropone rappresentazioni discutibili, trainate nel successo di pubblico più dal “titolo” di richiamo e dall’atmosfera gioiosa della festività che dalla qualità generale dell’allestimento.
A leggere in cartellone la “Bohème” pucciniana si può temere di trovarsi di fronte all’ennesima riproposizione deludente, come spesso accade a libretti troppo abusati che non trovano nelle scelte registiche, di direzione e nel cast una degna sublimazione.Stolto e fallace pregiudizio nel caso della produzione del Teatro Comunale di Bologna di cui si dà recensione.
Il timore viene derubricato presto nella categoria del pregiudizio, perché la Bohème bolognese è fresca, innovativa, anticonvenzionale, ma soprattutto intelligente e piacevole.
Dell’opera di Puccini conosciamo tutto, forse sapremmo recitare a memoria le frasi cult, conosciamo trama e tragico epilogo; eppure al Massimo felsineo veniamo fuorviati dal grande inganno scenico di Graham Vick e tutto quel che era nostro d’un tratto si dissolve e restiamo in ascolto di una storia nuova.
Lo scrivevamo in precedenza su queste pagine: per allontanarsi dai cliché più che coraggio, serve un’idea che sottenda e sostenga l’impianto registico guidando la rappresentazione verso territori che non ti aspetti.
Per riuscirci il regista ha scarnificato ogni consuetudine. Se leggendo l’articolo si fosse tentati di mettere la memoria in modalità riproduzione sintonizzando il ricordo su altre recite a cui si è assistito in passato, sarebbe necessario arrestarsi. Qui va in onda un’altra storia.
Il primo mattone dei ricordi esplode annientato dai colpi possenti del piccone scenografico. I quadri sono moderni, oseremo dire anni novanta.
La lercia povertà di un alloggio studentesco contrasta con le luci al neon delle vetrine. In mezzo ci sono i pericoli dell’età di mezzo in cui i sogni della giovinezza affacciandosi sulle problematiche della vita adulta sembrano sciuparsi, rendendoci vulnerabili a mille tranelli di un mondo spietato e crudele.
Sullo sfondo vengono introdotti temi di difficile trattazione: droga, prostituzione omosessuale, disagio sociale.
Non solo Vick schiva con molta arguzia i luoghi comuni, ma usa questa modernità per far implodere il mito della vita bohemien che qui sembra solo un pretesto per mascherare vigliaccheria e menefreghismo. Quando chi si attribuisce un animo artistico, vessillo di primato emotivo, fugge difronte al cadavere dell’amica morta, la verità viene a galla impietosa. La scusa artistica è usata come paravento per coprire una vita insulsa o disimpegnata. La critica, che arriva dall’arte stessa, sembra amplificarsi in continui rimbombi: non si più essere poeti o pittori se si abdica dall’essere uomini.
L’orchestra diretta da Michele Mariotti, risponde prontamente alla sapiente bacchetta.
Questa Bohème è ben suonata e le scelte d’interpretazione e di dinamica sono coerenti con la direzione registica.
Il percorso del direttore d’orchestra sfronda la partitura di ogni manierismo interpretativo restituendo centralità alla musica, anche laddove le scelte sceniche e di regia potrebbero fagocitarla.
Invece Mariotti costruisce alacremente per poi far precipitare la musica in un precipizio da vuoto nello stomaco quando c’è da trarre un giudizio morale. Scusate se è poco. Forse, volendo cercare un pelo (piccolissimo) in un uovo (succosissimo) si potrebbe dire che dai momenti corali ci saremmo aspettati qualcosa in più ma questo uovo è così buono che, in fondo, chi se ne frega del pelo.
Né Mariotti, né Vick sarebbero arrivati a tanto senza un cast di cantanti che avesse saputo non solo cantare ma anche interpretare e recitare magistralmente tutta la recita. Già, perché in questa Bohème la componente attoriale è estremamente importante e mai complementare alla lirica. Questo gioco di continui rimandi, allusioni e denunce sociali si concretizza nella recitazione laddove la musica è un fatto da cui non si può trascendere.
E non si può trascendere nemmeno dal cantato perché alla fine l’opera è l’essenza stessa del canto.
Bravi tutti. Numerosi sono stati gli applausi a scena aperta.
Menzione d’onore per Francesco Demuro emozionante nell’aria” Che gelida manina” nel ruolo di Rodolfo e per Mariangela Sicilia, nitida nella vibrante “Sì, mi chiamano Mimì”.
Sempre ottimi e precisi gli altri interpreti tra cui spiccano un intenso e sfaccettato Nicola Alaimo nel ruolo di Marcello, Andrea Vincenzo Bonsignore nei panni di Schaunard, Evgeny Stavinsky interpreta Colline e Hasmik Torosyan in Musetta.
Questa Bohéme bolognese è proprio bella andrebbe vista, anche rivista. Siamo ancora in tempo ad accaparrarci gli ultimi biglietti. E’ in scena fino a Domenica 28 Gennaio 2018 e giovedì 25 su RAI5.
Ciro Scannapieco
Foto Rocco Casaluci ©