Dal laboratorio teatrale del centro sociale Ex Canapificio di Caserta, per la regia di Stefano Scognamiglio, What do you want?, visto sabato 13 gennaio 2018 al Teatro L’elicantropo di Napoli, è uno spettacolo che ripropone il tema dell’immigrazione africana, nella sua difficile e spesso drammatica evoluzione. Quattro uomini e quattro donne illustrano in una sorta di girotondo narrativo, il loro singolare percorso: ma non banalmente, attraverso mere testimonianze, ma nel silenzio del gesto, del ballo, nell’abbozzo di confessioni mormorate o gridate, o nell’inciampo di un racconto che si interrompe, un po’ alla Bunuel.
Lo spettacolo procede facendo scivolare la posizione dei personaggi dalla singolarità alla coralità, una coralità che a sua volta oscilla tra il punto di vista dei carnefici e quello dei martiri, in cui le esperienze (esistenziali delle persone, più che degli attori), è gridata nel dissidio tra la necessità di trovare una collocazione geografica nuova e salvifica, e quella della nostalgia di un’origine che mai si sarebbe voluta abbandonare.
I personaggi talvolta si rivolgono a noi, talvolta ci incarnano, in una macabra illustrazione di quello che la società e noi tutti potremmo (o siamo?) diventati. Il linguaggio, anche per questo motivo, si disperde tra l’italiano, l’inglese, o una lingua esotica che a noi suona incomprensibile. Anche qui si ripropone un clivage: da un lato, il desiderio di appropriarsi di una lingua, come a voler partecipare attivamente del luogo che “accoglie” (o forse per neutralizzare la sua respinta) e padroneggiare così il più possibile la comunicazione; dall’altro il desiderio di ritornare alla propria madre-lingua, e ostentare, attraverso la propria origine, persino un’incomprensibilità, sintomo di una fatica, talvolta insopportabile: quella di doversi spiegare, di doversi mostrare; e contro-effetto della rassegnazione ad essere compresi.
Non manca un’ironia, un riso sul tragico, che accompagna i gesti e le parole dei personaggi, intenti a litigare, raccogliersi, coordinarsi, separarsi, come a rappresentare non solo la drammaticità dell’incontro con lo straniero cui si fa visita, ma anche gli effetti di discordia che tale incontro determina. A parte il nobile intento del lavoro laboratoriale, lo spettacolo ha ancora una mise en scène acerba, incerta nel linguaggio e nei tempi attoriali (a parte qualche significativa e sorprendente eccezione, come la giovane attrice che introduce lo spettacolo). La regia, che resta molto scarna, dettata da una serie un po’ composita di movimenti, avrebbe forse potuto forse rimediare alla inevitabile fragilità drammatica di attori alle prime armi, ancor più perché non ha inteso accompagnarsi da una scenografia, totalmente assente. E tuttavia, proprio quel nobile intento che ha animato lo spettacolo, e la volontà/difficoltà di coinvolgere attori-esistenze, fa sperare in un compimento futuro, dopo un necessario rodaggio.
Molto indovinato il finale, con l’inno di Mameli che copre metaforicamente il chiasso di voci che si sovrappongono ognuna rispetto all’altra nel tentativo di emergere, e che vengono schiacciate dalla cornice simbolica della musica che diventa mestamente un totem totalizzante e omologante.
Tutto sommato, da vedere al Teatro L’elicantropo, con il testo e la regia di Stefano Scognamiglio, disegno luci Jack Hakim e Fabio Faliero, suono Jack Hakim e sul palco Florence Omorogeva, Becky Collins, Jennifer Omigie, Tessy Akiado Igiba, Osman Nuhu, Israel Emovon, Ibrahim Diallo, Wadud Husseini.
Andrea Bocchetti