Il gelo impera sin dall’inizio nel riuscitissimo allestimento voluto dal regista Pier Francesco Maestrini per l’ultima opera pucciniana, l’incompiuta Turandot che ha debuttato sul palcoscenico del Teatro Verdi di Salerno domenica 3 dicembre 2017. Le scene (una enorme scalinata di pietra del Palazzo Imperiale con arcigne porte chiodate e grige che si aprono e si richiudono a delimitare momenti ed azioni) dove abbondano i rimandi dell’antica e fiabesca Pechino ed i bei costumi accurati di Alfredo Troisi sviluppano e sostengono questa scelta, con luci dai toni freddi e spettacolari proiezioni video; inoltre ben vengono utilizzati gli spazi scenici del massimo cittadino, con un fluido movimento tra le masse corali, figuranti, coro di voci bianche, solisti. La storia della inaccessibile principessa crudele e dell’uomo (Calaf) che batte alla porta degli enigmi, ricca di contrasti e risvolti psicologici ha una partitura melodica e atonale, lirica e magniloquente, in realtà tra le più complesse ed ardite tra tutte le composizioni del Maestro lucchese, “grondante di suoni, splendente di impasti ferrigni e luci adamantine, stellari” (G. Marchesi), ed un organico orchestrale possente con strumenti anche insoliti ma fondamentali per creare il pathos espressivo e gli effetti di colore esotico. Come afferma M. Girardi “Turandot è il vertice dell’arte pucciniana per quanto riguarda la tecnica orchestrale, la vocalità, il trattamento del ritmo, l’armonia” oltre che “l’esperimento più ambizioso che mai un compositore italiano abbia mai tentato, prima della svolta ‘radicale’ del secondo dopoguerra”. Sicuramente una opera difficile anche per la scelta delle voci, che devono garantire ardimenti vocali, per la realizzazione dell’atmosfera orientale, per i sontuosi effetti strumentali che l’orchestra è chiamata ad esprimere. Alla guida di Daniel Oren (nella replica del 5 dicembre il podio è affidato a Gaetano Soliman) troviamo un cast che non si è risparmiato e ha meritato appieno, a fine spettacolo, una lunghissima ovazione.
Maria Guleghina nel ruolo della figlia dell’imperatore Altoum, personaggio notturno, poi donna innamorata, ha messo in luce con la sua timbrica e le sue doti da attrice il processo che porta alla progressiva umanizzazione della protagonista nei tre atti. Altera, nobile e spietata, successivamente dilaniata da sentimenti contrastanti “tormentata e divisa tra due terrori uguali: vincerti ed esser vinta” offre un notevole spessore e credibilità all’algida figura coadiuvata da una sicurezza nel registro acuto.
Gustavo Porta che avevamo di recente ascoltato in Norma, qui sembra particolarmente a proprio agio con la sua vocalità spiegata e difatti, spinto dal pubblico, bissa la stupenda Nessun Dorma; in più sorretto da una regia dinamica, risulta scenicamente molto calato nel personaggio del principe ignoto Calaf, figlio di Timur. Valeria Sepe giovane soprano napoletano dal timbro morbido, incarna la delicata piccola schiava Liù (nel corso delle tre recite si alterna con Bing Bing Wang) e lo fa in maniera egregia, con accenti dolci e commoventi, pieni di sfumature in Signore, ascolta!, e nella celebre Tu che di gel sei cinta.
Il trio di dignitari Ping (Fabio Previati), Pang (Vincenzo Peroni), Pong (Francesco Pittari) “commento disincantato, ironico, talvolta persino cinico della realtà che li circonda”, che si muovono in maniera scattante e veloce secondo i dettami del Kung Fu e del Tai Chi, aderiscono al clima unitario della messa in scena e fanno sfoggio di una buona amalgama vocale. Con loro Carlo Striuli in Timur, sempre una forte presenza scenica seppur con qualche emissione forzata; in parte Angelo Casertano in Altoum; Angelo Nardinocchi un mandarino ed Enrico Terrone nel Principe di Persia.
Bene i cori: l’uno compatto, bei suoni e colori, preparato da Tiziana Carlini, l’altro, le voci bianche, da Silvana Noschese, che partecipano alla narrazione. L’orchestra veleggia sicura nelle acque melodiche ed armoniche, con slanci e potenza, assecondando le sfumature e le dinamiche richieste da un ispirato Daniel Oren, conduttore incisivo, capace di equilibrare al meglio i rapporti tra buca e scena, intento a sostenere costantemente i cantanti, con picchi timbrici nei momenti più struggenti dalla scrittura pucciniana.
Il risultato finale? Applausometro in tilt e pioggia di rose su tutti i protagonisti.
Si replica martedì 5 alle ore 19 e venerdì 8 alle ore 21.
Dadadago