Una commedia tragica, una leggerezza disperante, un’ironia del dramma: queste tre espressioni ossimoriche sembrano caratterizzare lo spettacolo dei Maniaci d’Amore “La Crepanza” in scena a San Leucio (CE).
Per una ragione precisa: ciò che va in scena è una logica del contrasto sincronico, due principi opposti che cercano di congiungersi senza riuscirvi.
Durante un rave, i due protagonisti, Amara e Mio, all’inizio sconosciuti l’uno all’altro, si ritrovano all’improvviso soli: tutto è sparito, la folla che li circondava e gli amici che li accompagnavano. Lo smarrimento e il panico per essere stati catapultati senza ragione in quello che loro chiamano un deserto, li pone di fronte l’uno all’altra, in una sorta di prigione dell’assenza, un’isola deserta.
Ma il loro dialogo segue due logiche contrapposte: una, quella di Mio, attaccata alla vita e l’altra, quella di Amara, rassegnata alla morte.
I due protagonisti vivono quel deserto in un clivage, espressione forse di due collocazioni, di due sentimenti di quel luogo che cercano in qualche modo di dialogare. Mio non vuol saperne di quel deserto, rifiuta la convinzione di Amara, già da prima slanciata al suicidio, di essere finiti in un Ade spopolata. Il loro rincorrersi nel dialogo, il loro fingere “di stare insieme”, il deridersi vicendevole, segue il principio di un’incomunicabilità, di un’incomprensione. Sono due grammatiche eterogenee: quella della vita e della morte. Ma tra la vita e la morte, per dirla alla Lacan, non c’è rapporto sessuale.
L’unione è ambita, è cercata, ma nello scacco di chi vuol piegare l’altro a sé, non per unirsi ma per unirlo a sé.
In verità, più che un deserto, si ha la sensazione di essere in un ventre, anzi un utero. Un utero in cui il contrasto si conferma: il simbolo (un lettino gonfiabile da mare a forma di aragosta) che Mio recupera da qualche parte fuori-scena e a cui si aggancia con fede, per dire a sé stesso ciò che vuole affinché si materializzi, pare un gigantesco oggetto transizionale (gli oggetti-giocattolo di cui parlava Winnicott, “inventati” ad arte dal bambino per regolare la propria angoscia di separazione), venuto in salvezza per sollevarsi dall’abisso materno originario perduto (è un caso la citazione di Eliot pronunciata da Mia?).
Se, come dichiara Mia, forse un po’ didascalicamente, che il simbolo (dal greco symballo, mettere insieme) un tempo univa, mentre oggigiorno separa, ecco che nel deserto questo si capovolge, integrandolo, nel suo esatto contrario, il diavolo (dal greco diaballo), colui che separa, che allontana. Una buona declinazione della frase di Pope: l’unione non può prescindere dalla separazione.
Ma qui unione e separazione restano inconciliabili, vita e morte tragicamente separati e destinati alla divergenza. Pulsione di vita e pulsione di morte non trovano nel loro contrasto nessuna soluzione: Mio vuole ritornare alla vita e, quando questa si ripresenta, non esita a lasciare il ventre-deserto. Amara vuole accomodarsi nella morte, regressivamente tesa all’oscurità dell’inorganico che ama il buio: i suoi salti finali, per raggiungere una culla posta metaforicamente in alto, forse in un ultimo balzo che tenta disperatamente di afferrare la vita, sono il momento forse più evocativo dello spettacolo.
Vero è, che laddove c’è ora il deserto, un tempo c’era il mare (in francese mer e mère hanno la stessa pronuncia e lo stesso genere): anche qui un ulteriore indizio. Forse, nell’imparare il nostro abecedario critico, siamo rimasti vittime della psicoanalisi. O forse no.
A dispetto di una resa attoriale e di un testo di tutto rispetto, posto che in quest’ultimo ci sia almeno o di più di quello che abbiamo voluto vederci, la regia sembra ancora un po’ sbilenca, incerta in alcuni movimenti e nella gestione dello spazio scenico, non sempre occupato in una connessione narrativa efficace (il tavolino nell’angolo col pc, il microfono e il mixer luci, può essere giustificato solo come boutade da futuristi se non vuole sfiorare l’amatoriale: a nostro parere, si può fare meglio).
Scenografia, costumi e musiche quasi assenti (o poco rilevanti): scelta indovinata, senza la quale la proverbiale isteria (non ci si riferisce alla patologia) attoriale dei Maniaci d’Amore, e proprio per questo femminea in entrambi autori-attori, non lascerebbe parlare l’essenziale: il significante che si fa corpo (Ça parle), che retrocede la parola e il significato in secondo piano per lasciare emergere la sensazione. Ambizioso? Chiedetelo al teatro.
Con Francesco d’Amore e Luciana Maniaci, produzione Maniaci d’Amore, Fondazione Luzzati, Teatro della Tosse di Genova, Nidodiragno, Coop CMC in collaborazione con Teatro di Messina. Luci di Daniel Coffaro. Costumi di Pasquale Pellegrini.
Andrea Bocchetti