Ciò che affascina del Simon Boccanegra di Verdi, opera andata in scena al Teatro San Carlo di Napoli il 7 ottobre scorso con repliche successive (abbiamo assistito alla recita dell’11 ottobre scorso interpretata dal secondo cast), è la dimensione politica, la presenza del popolo, l’inserzione delle vicende private in un contesto collettivo di grande interesse, tema certo presente in altri suoi lavori e nella maniera più drammatica e problematica nel futuro (rispetto alla prima realizzazione del Simone ) Don Carlos, ma qui proiettata e trascesa su un piano ‘metafisico’ attaverso un personaggio protagonista di grande forza e originalità.
Presentata nella versione rinnovata del 1881 per la Scala di Milano, creata a distanza di ventiquattro anni dalla prima del 1857 alla Fenice di Venezia, l’opera ha ricevuto il massimo risalto riguardo alle sue innovazioni e al suo “moderno” impianto drammaturgico attraverso la pregevolissima esecuzione dell’orchestra sancarliana diretta da Stefano Ranzani, la elegante regia di Sylvano Bussotti del celebre allestimento già prodotto dal Regio di Torino nel 2013 e qui ripresa da Paolo Vettori, l’abile gioco di luci di Fabio Rossi.
Notevole l’apporto del coro del Teatro San Carlo diretto da Marco Faelli, fondamentale musicalmente e teatralmente in quasi tutto l’arco di questo melodramma che pone in primo piano il confronto dialettico con la collettività o il suo imprescindibile valore di sfondo su cui si staglia il tema dominante della crisi del potere e degli affetti familiari. La bellissima scenografia ideata da Bussottti, così come i ricchi costumi dai colori caldi e variegati ascrivibili a fonti evidentemente attinte dalla pittura rinascimentale ha colpito per l’evocazione di archi e di edifici dell’epoca attraverso cui si intravede costantemente il mare, elemento reso vivo e mobile dalla meccanica di rulli che traducono il suo movimento incessante di onde o magico e misterioso nelle splendide visioni notturne che si avvalgono di ricercate videoproiezioni. Lieve e raffinato anche l’utilizzo di tulles dipinti per le scene. Quindi in primo piano vi è l’ambiente dell’ex corsaro, simbolo della città marinara di Genova oltre che della dimensione di infinito di fronte alla quale rimpiccioliscono i meschini conflitti umani e della storia. È proprio di fronte a tale dimensione che si erge la statura morale di Simone il quale, reduce dalle sue dolorose esperienze personali, si trova ad incarnare la figura di un potente alieno da qualsiasi logica di arroganza e assolutezza.
Amartuvshin Enkhbat lo interpreta egregiamente con una vocalità piena, rotonda e sensibile ad esprimere le sfaccettature interiori del personaggio.
Nella situazione più grandiosa e suggestiva dell’opera, il Finale della seconda parte del primo atto, ambientato nella Sala del consiglio dove è riunito il senato e dove si portano alla luce tutti i conflitti dei personaggi e dei ceti sociali, egli domina teatralmente e vocalmente la scena ergendosi quale centro carismatico dell’insieme, laddove il popolo viene evocato come forza politica con una vigorosa rappresentazione musicale, secondo Mila non da meno di quella delle Passioni di Bach. L’appello “Plebe, Patrizi, Popolo” suona suggestivamente come un inno all’ideale della fratellanza tra gli uomini. Verdi aveva in particolar modo inteso modificare tale momento drammaturgico nel lavoro di revisione con l’introduzione geniale dello spunto offerto dalle famose lettere del Petrarca ai dogi, avverso la guerra fratricida, e con l’inserimento della maledizione di Paolo, interpretato convincentemente da Gëzim Mysheta sufficientemente subdolo e mefistofelico secondo l’intenzione boitiana.
Davinia Rodriguez è un’Amelia teatralmente trepidante e appassionata con un’estensione vocale capace di estendersi soddifacentemente verso i gravi ma non sempre gradevole e omogenea nel timbro. Convincente tuttavia la sua aria di presentazione “Come in quest’ora bruna” e la sua prestazione scenica nel successivo duetto con Gabriele Adorno. Quest’ultimo ha avuto la voce chiara e vigorosa di Leonardo Caimi, l’unico tenore circondato dai prevalenti timbri scuri, passionale e baldanzoso, vocalmente espressivo nel suo passaggio dall’ostilità espressa nella congiura del secondo atto all’agnizione della vera identità del doge. La complessità del fiero personaggio di Fiesco è vocalmente affidata alla voce profonda e incisiva del basso Giorgio Giuseppini netto nel fraseggio e potente nell’emissione vocale, fin dal prologo, toccante nel duetto finale con l’antagonista che vede finalmente la pacificazione tra i due “padri”.
A completare degnamente il cast, Gianvito Ribba (nel secondo cast) nel ruolo di Pietro, Antonello Ceron ( il Capitano dei balestrieri, Milena Josipovic (l’ancella di Amelia).
Un ruolo di primo piano svolge l’ottima orchestra diretta da Ranzani nel tradurre il flusso musicale che si dipana nel senso della continuità postwagneriana in una narrazione senza cesure, nello stabilire i rapporti di dialogo e di equilibrio con la scena, nell’evidenziazione dei singoli timbri strumentali in questa scrittura orchestrale fondamentali per le sottolineature delle atmosfere drammatiche ed emotive della vicenda oltre che delle motivazioni psicologiche dei personaggi, si pensi al ruolo dei clarinetti, o dei fiati in genere, oltre che delle varie sezioni degli archi, infine nel tradurre morbidamente quei ritmi composti che alludono in più momenti alla presenza protagonistica del mare e della natura che avvolge il tutto.
Caldi applausi hanno accolto l’impegnativa ed accurata realizzazione dello spettacolo.
Rosanna Di Giuseppe
Foto Emanuele Ferrigno ©