Per realizzare il lavoro di Betta Cianchini in scena al Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale, Napoli il 25 giugno 2017, che tratta il tema della violenza di genere, pare che sia stata preziosa la collaborazione con uomini maltrattanti.
Tre storie si intersecano (una giovane innamorata, una professionista alto-borghese ed una madre), intercalandosi in sospensioni successive evidenziate da una luce che di volta in volta dà vita alla singola narrazione. Il denominatore comune è la violenza familiare sulle donne: una violenza che si è insinuata nello spazio affettivo dell’unione lentamente; che ha mostrato tutta la sua brutalità con gradualità; che ha saputo nascondersi nelle pieghe del quotidiano e mischiarsi alla tenerezza che l’ha resa equivoca. Le storie lasciano emergere le esitazioni delle protagoniste nel riconoscere quella violenza che nasce dall’amore insano o che si esprime nella vigliaccheria maschile di esercitare la personale frustrazione sulla propria “amata”. Solo una di loro riuscirà a sottrarsi dalla fine tragica.
La narrazione procede per dubbi, sensi di colpa, interrogativi che le tre donne rivolgono a loro stesse, integrandoli a dialoghi rivolti ad assenti evocati.
A costoro viene rivolto il proprio appello; una domanda d’aiuto, ma incerta, mai pronunciata, se non alla fine, con nitidezza.
E così i loro interlocutori, polizia compresa, finiscono per diventare fiancheggiatori del carnefice.
Il testo, a tratti ingenuo e bonario, ci racconta di un universo femminile debole, passivo e inerme alla violenza. Le donne appaiono prive di qualsiasi capacità reattiva, fatalmente vittime indifese, perdute nella propria ingenuità che sembra miope anche dinanzi alla violenza più brutale.
Ne esce fuori un quadro poco credibile, in cui tutti sembrano incapaci di leggere quello che accade, comprese le protagoniste: genitori, amici, forze dell’ordine, sono accecati da una maschera di indifferenza o di diffidenza che consente al carnefice di compiere il proprio delitto. Nessun cenno al vero problema della violenza: un vuoto giuridico immenso a cui ancora non si è posto rimedio. Come la stessa autrice ci ricorda:«Le storie raccontate sono storie italiane… Purtroppo il paradigma mentale (femminile e purtroppo anche quello maschile) è molto spesso lo stesso. Il sentirsi improvvisamente in un film horror, (lo dicono molto spesso le donne, durante la denuncia) in una gabbia mentale e la paura di uscire dalla stessa. Quindi l’impotenza e soprattutto l’incapacità di riuscire a raccontare agli altri la verità. Più l’estrazione sociale, culturale ed economica della donna è alta, più il disagio nel raccontarsi è prepotente, potente ed invalidante. E più alta è la percentuale delle donne che mettono piede in caserma o in centro antiviolenza e scappano… Bisogna parlare con “semplicità emotiva nella narrazione” che è cosa ancor più difficile ma tanto più urgente. E bisogna raccontare queste storie perché spesso anche quando si denuncia… c’è qualcosa che si inceppa… che non va avanti»-
Pur lodando l’impegno e la scrittura drammaturgica, le prove attoriali risultano molto incerte nella parte iniziale, recuperando slancio nei momenti drammatici del finale.
Scenografia didascalica, con spazi separati da una decorazione distinta e richiamati dalla sola luce che di volta in volta si orienta.
Musiche poco incisive. Il pubblico sembra avere apprezzato. Noi, non così tanto. Ferocia per il NTFI con Lucia Bendia, Betta Cianchini, Elisabetta De Vito. Regia di Gabriella Eleonori. Produzione 369gradi.
Andrea Bocchetti