In scena il 12 e 13 giugno 2017 al teatro Bellini nell’ambito della ricca programmazione del NTFI, Quel gran pezzo della Desdemona già nel titolo rivela gli intenti registici ed attoriali di Luciano Salterelli ossia rivisitare con irriverenza e malizia l’Otello shakespeariano secondo lo stile ed il taglio di una fortunata cinematografia degli anni Settanta, che abbondava di attrici discinte, ammiccanti, seducenti, cosce al vento e tette intraviste, per lo più professoresse e infermiere spiate, inseguite, sognate dai vari maschi allupati da tanta bellezza in bella mostra, in cui spesso l’erotismo si coniugava col voyeurismo.
La riscrittura del testo attinge anche alla cinquecentesca novella di Cinzio a cui guardò il Bardo e così ci ritroviamo in una Milano, incrocio di mille emigrazioni operaie, densa di conflitti tra le classi, dal clima bombarolo (si sa, gli anarchici…) in cui tristi esistenze arrancano nelle case di ringhiera, a fianco dei padroni dal drink pomeridiano e le pelliccie esibite dalle sciure come simbolo di potere e successo. In questo contesto, evocato dalle musiche di Federico Odling e dalle bellissime videoproiezioni disegnate come tavole fumettistiche (Jack De Luca), abbondanti di riferimenti (Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, un quadro coi tagli di Fontana, l’omaggio alle sorelle milanesi Giussani con Diabolik ed Eva Kant immortalati in un bacio appassionato, le scene dal Padrino, solo per dirne alcune) la vicenda teatrale prende vita recitata in tanti dialetti. Nella fabbrica di manichini del signor Brambilla (personaggio “sofferente” che ricorda/cita il commissario Antonio Sarracino/Totò con la sua “ciambella” nel film di Steno), prototipo del “commenda” con amante proletaria, lavora il Moro, ragazzone napoletano, “uomo di valore”, muto per un atto di eroismo compiuto sul lavoro. Jago è suo compaesano, prima collega e poi sottoposto, artefice per bramosia di potere o pura cattiveria, della subdola macchinazione in cui il fazzoletto otelliano è sostituito da un paio di mutandine rosse (usate!), antico pegno materno (che onestamente ci sembra molto poco fine), mentre Cassiolo è il romanesco collega manovrabile per mancanza di intelligenza, pedina essenziale nelle mani di Jago.
Le figure femminili annoverano sua moglie Emilia, sciatta e claudicante, inconsapevole complice degli inganni del marito mal sopportato; Bianca una prostituta romagnola che sogna il matrimonio, la bella Desdemona, figlia unica di Brambilla, classica ragazza di buona famiglia, appena diplomata in un collegio svizzero, idealista, misticheggiante, ingenuotta ed aperta alle relazioni interclassiste che s’innamora del dipendente scuro e baffuto e Ludovica sua madre, prototipo di una borghesia cinica e disimpegnata. Nell’allestimento che si avvale delle scene e costumi di Lino Fiorito, con oggetti bianchi dal design antropomorfo, la trama originaria si stempera in personaggi ossessionati dal sesso: Brambilla ha l’amante giovane che sta al suo posto, Jago è pedofilo, Cassiolo va a prostitute, Emilia è fortemente attratta da Desdemona, un prete, Don Dino, allungherebbe volentieri le mani sulle grazie della ragazza nel confessionale…
Prodotto da Teatri Uniti, il gruppo di Servillo diretto da Angelo Curti, lo spettacolo procede con un ritmo andante ma non troppo, avvolto in suggestioni cinematografiche di quegli anni, sino al finale straniante in cui sono tutti morti. Consumato il dramma della gelosia il Moro apre bocca per la prima volta, mentre Jago, vestito da ragazzetto birbante/il Pierino di Alvaro Vitali, confessa il suo perché citando Giuseppe Verdi: “Credo in dio crudele”. In scena, oltre allo stesso Luciano Saltarelli (Jago, la madre del Moro, Brambilla, Don Dino), ci sono Rebecca Furfaro (una Desdemona convincente e conturbante), Giovanna Giuliani (poliedrica nelle sue caratterizzazioni di Emilia, Bianca, Ludovica), Luca Sangiovanni (il Moro muto ma espressivo), Giampiero Schiano (Cassiolo, Gavino, uno spettatore al cinema).
Non sono mancati gli applausi (nella seconda serata), ma rimane la sensazione che la tragedia stravolta e riproposta come una commedia sexy di oltre quarant’anni fa anni, raffinata nelle scene, negli oggetti, sboccata negli slang dialettali, ben recitata sì, con qualche trovata umoristica, infarcita di citazioni, non vada oltre l’omaggio (parafrasi) ad un filone cinematografico datato, di cui (ci perdonerete o dissentirete), non sentiamo nessuna mancanza.
Dadadago