Giunti presso la sede in cui l’intervista doveva avvenire, ci si è subito resi conto che l’impresa non sarebbe stata semplice: la donna da intervistare, forte dell’esperienza di storica puntuale, si pone con grande diffidenza nei nostri confronti.
Tenaci e sostenuti dall’intento di comunicare quanto il materiale storico e scientifico raccolto dalla professoressa Marmo fosse base dell’intervista, è parso alla fine efficace per lasciare che l’intervista potesse prendere avvio.
Il compito che si intende portare a termine è diffondere la conoscenza di un saggio La costruzione della verità giudiziaria il cui interesse non può che essere definito trasversale. Sia l’attento giurista sia l’avventore casuale non potranno che essere irretiti dalle narrazioni presenti nel saggio ove compare un giusto monito delle conseguenze nefaste delle approssimazioni giudiziarie che coinvolgono gli operatori del diritto e della società intera.
Il lavoro pone in evidenza anche come sia un’imprecisione affermare che di ‘maxi-processi’ se ne possa parlare dagli anni ’90 in poi dello scorso secolo, grazie all’eccezionale operato di personalità quali Giovanni Falcone e Vincenzo Borsellino.
I grandi processi hanno portato sempre a discussioni intorno ad essi, mobilitando in alcuni casi anche l’intera comunità civile e uscendo dalle aule dei tribunali, a volte creando nuove consuetudini.
Quanto detto potrà constatarsi grazie all’interessantissimo studio della studiosa Marcella Marmo, docente ordinario di Storia Contemporanea all’Università Federico II di Napoli, il cui campo attuale di ricerca è la storia della criminalità e della politica criminale in Italia tra Otto e Novecento.
Balzata agli onori della cronaca, seppure circostanza smentita, per essere la penna che si celava dietro lo pseudonimo della scrittrice Elena Ferrante, ella ha trascorso molto tempo dedicandosi al processo Cuocolo e alle sue manipolazioni, oggetto di questa trattazione, lavoro condensato nello scritto intitolato Processi indiziari non se ne dovrebbero mai fare inserito nel volume La costruzione della verità giudiziaria a cura di Marcella Marmo e Luigi Musella, Edizioni ClioPress.
Prof.ssa Marmo, perché ha deciso di occuparsi proprio del processo Cuocolo?
“Io mi sono occupata per lungo tempo di letteratura sulle origini della camorra e in ogni contesto si parlava del processo Cuocolo, cosicché da storica mi sono immersa, mio malgrado, in questa vicenda.”
Partiamo dal fulcro della questione del processo Cuocolo per poi dipanare le fila del discorso; si è parlato di legittima suspicione, perché?
“All’epoca, in verità, ci si riferiva a ciò, non in relazione alla probabile pressione che avrebbero potuto avere i magistrati nel condurre il processo, bensì per proteggere gli imputati. Premesso ciò, nel processo in questione, trattandosi di camorra, il percorso processuale non si sarebbe potuto svolgere a Napoli, poiché le pressioni sarebbero state insostenibili; si ritenne prudente trasferire il tutto dinanzi alle corti giudiziarie della città di Viterbo.”
Come prese il via l’intera vicenda?
“Nella camorra del 1906 (anno in cui prende il via la nostra storia) si poteva ampiamente notare l’esistenza di un articolato sistema in cui i gruppi malavitosi avevano funzioni ben definite: vi erano gli onorati, i ricettatori, gli sfregiatori e i cosiddetti basisiti; è in quest’ultima categoria che vanno inseriti i nostri protagonisti.
Al capo di questa organizzazione vi era un eminente capoclan, il quale gestiva gli affiliati e stabiliva come eventualmente dovessero essere risolte le problematiche tra questi stessi.
Tutto ciò è necessario premetterlo perché, la zona di riferimento al quale il processo Cuocolo afferisce fu la zona della Vicaria, ove vi era il centro degli innumerevoli interessi di malaffare, tra cui la gestione dei cavalli, delle carrozze (quali principali mezzi di trasporto), della tratta delle ragazze, nonché del gioco d’azzardo.
Per ritornare alla nostra vicenda, i Cuocolo costituivano una coppia di coniugi che, in apparenza, apparteneva alla classe medio-borghese: erano giovani, felici e perbene, eppure nei fatti rientravano nei giri malavitosi proprio con il ruolo di basisti. Gennaro Cuocolo era la pecora nera di una spettabile famiglia di commercianti, mentre la moglie proveniva da una lunga esperienza di prostituzione.
Premesso ciò, successe quanto si dirà: nell’ambito di una delle loro illecite collaborazioni, si prestarono a supervisionare un appartamento in modo di che gli altri soggetti che avrebbero dovuto compiere il relativo furto, avessero avuto il terreno già predisposto. Qualcosa, però, andò storto. I ladri furono arrestati e pare che la coppia nascose (venendo meno ai patti) parte della refurtiva. Quando i rei di furto uscirono di prigione andarono a rivolgersi al capo-clan di riferimento, ovvero il personaggio di spicco del quartiere Vicaria.
Da qui in poi, rispetto al carteggio processuale pervenutoci, la vicenda assume connotati equivoci.
Si suppone che nel regolamento di conti Gennaro Cuocolo fu ucciso nella zona di Torre del Greco e che la medesima sorte toccò alla moglie nel suo appartamento di Napoli in quanto ella di certo avrebbe saputo che il consorte si stava recando all’incontro per la risoluzione di tale questione.
Rispetto alla vicenda, inizialmente l’indagine venne condotta frettolosamente e in maniera approssimativa.
Nonostante tutto, la storia cominciò a destare l’interesse di sociologi, di studiosi e di giornalisti, in quanto iniziò a rappresentare e ad essere l’emblema dell’esistenza e della pericolosità di un sistema malavitoso davvero radicato e ben organizzato.
Gli interessi in gioco erano molteplici e, quello che sembrava essere un banale caso giudiziario, andò a toccare gli interessi e i gangli della malavita, del sistema giudiziario e degli amministratori politici, i quali (ognuno nel proprio ruolo) sentì vacillare un sistema tristemente consolidato.
L’importanza di tutto ciò, però, si profuse nell’aria e un enorme riscontro mediatico trasformò il caso giudiziario in un fatto epocale di interesse nazionale, sull’onda del grande caso Dreyfus.
Dopo il primo frettoloso approccio, nel febbraio del 1907 un delatore presentato alla Procura di Napoli dall’Arma dei Carabinieri, tal Abbatemaggio, in competizione con la Questura, diede il via a quello che poi sarebbe diventato uno dei primi ed effettivi maxi-processi, contrassegnato da molteplici forzature probatorie.”
A questo punto la vicenda deve essere ben spiegata e, a tal fine, si ritiene opportuno, per essere puntuali, riportare un brano dello scritto di riferimento della Prof.ssa Marmo.
“… questi produssero un maxi-processo impostato secondo un rigido paradigma associativo e con marcate forzature probatorie, le quali non soltanto alimentarono forti campagne di stampa attivate dalla difesa e dall’opinione garantista, ma provocarono un serio conflitto interistituzionale, che dalla polizia giudiziaria si allargò alla magistratura (1908) e diede dunque una chiara coloritura politica al processo.
Una certa memoria sociale continua a ricordare il caso Cuocolo come gli ‘appiccichi’ tra colpevolisti ed innocentisti, – tra chi accettava il castello accusatorio del delatore e teste principale (tal Gennaro Abbatemaggio), e chi vi vedeva il pesante intervento dei Carabinieri, dalla cui tutela era appunto uscito il presunto pentito del 1907 … il caso approdò per legittima suspicione alla Corte d’Assise di Viterbo (1911-12), che avrebbe confermato il paradigma accusatorio, montato sull’incrocio tra l’omicidio dei Cuocolo e l’associazione a delinquere. Restavano come sospese tra la realtà e la fiction la galleria dei personaggi tipicamente misti tra camorra elegante ed omicida rinchiusi nel gabbione di Viterbo, la sfilata di testimoni poco attendibili…”
Prof.ssa, Lei ha parlato anche di coinvolgimenti relativi a casi paralleli e di rilievo, vero?
“Atteso quanto affermato si è potuto ampiamente rilevare che tra i Carabinieri e la Questura non correva buon sangue e tra i rimbalzi di posizioni pubbliche, ove addirittura si tirò in ballo Giolitti, ci furono dei processi a carico di Poliziotti accusati di corruzione, poi – invero – assolti.
Il clamore che scaturì da tutta la vicenda, dunque, creò gran clamore; la città di Napoli era tutta coinvolta negli schieramenti tra colpevolisti e innocentisti, creando le fazioni di chi dava adito ad un sostanzialismo giuridico più che formale, nonostante il codice Zanardelli – in vigore all’epoca – avesse uno stampo spiccatamente garantista.
Si discuteva dei coevi processi Dreyfus e Notarbartolo; quest’ultimo, ugualmente di stampo indiziario, si connotò, in virtù delle assoluzioni e per l’aderenza al codice in vigore, (seppure si disse malevolmente) procedimento giudiziario che nazionalizzò la mafia.
I paralleli processi Dreyfus e Notarbartolo si conclusero dovutamente all’insegna della non colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio come diremmo oggi e furono esattamente esperienze opposte al processo Cuocolo che, nonostante fosse di tipo lapalissianamente indiziario, si concluse con diverse condanne a trent’anni di carcere.
Il famoso Abbatemaggio pertanto venne condannato, sennonché venti anni dopo dichiarò di avere inventato tutto in concomitanza con varie richieste di grazia avanzate e non concesse dalla Casa Reale, seppure Mussolini risolse la cosa in via amministrativa eliminando la pena per gli ultimi anni di carcere a vari esponenti del processo”.
Il viaggio in questa affascinante avventura giudiziaria vuole essere in questo articolo solo uno stimolo alla lettura del saggio puntualmente elaborato da anni di intenso lavoro della Prof.ssa Marmo, il quale è connotato non solo da rigore scientifico ma anche da una capacità di coinvolgimento narrativo degno dei racconti inseriti nei grandi romanzi.
È proprio per tale motivo che si evidenzia che il lavoro in questione, oltre all’interno del volume sopracitato potrà essere reperito liberamente in rete ricercando il nome della Prof.ssa Marmo associato al ‘Processo Cuocolo’.
Essere fino in fondo operatori del diritto coscienti e formati e cittadini attivi risulta necessario studiare e riprendere casi giudiziari così determinanti per comprendere la nostra società.
Come non terminare a questo punto con: Processi indiziari non se ne dovrebbero mai fare e un grazie sentito alla Prof.ssa Marmo.
Melania Costantino
Sospettata di essere la Ferrante, la Prof.Ssa Marmo nega e ci rilascia un’interessante intervista. Un maxi-processo ante litteram
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