Verdi, più ancora che Dumas figlio con “La dame aux camelìas”, consegna ai posteri un tragico episodio di cronaca; la morte di Alphonsine Plessis, una cortigiana 23enne legata a molti intellettuali del suo tempo e allo stesso letterato, per così dire, suo biografo.
Quando e in quale occasione in Verdi sia nata l’idea di comporre un melodramma sulla tragedia di Dumas è argomento controverso, ma di rilievo sopratutto per i biografi; musicologi e melomani hanno, a buona ragione, scelto da molto tempo di dedicarsi all’approfondimento dei contenuti musicali e drammaturgici del capolavoro di Violetta e in tale direzione è particolarmente pregevole proprio la revisione critica della partitura realizzata da Della Seta.
Il musicista era fermamente intenzionato a conservare la massima attualità alla vicenda e non si preoccupò, e mal gliene incolse, di ambientare la tragedia nel decennio centrale del XIX secolo.
Una storia di cortigiane e soprattutto di loro “nobili” protettori, che provocò una inconfessata indignazione da scomoda identificazione e un manifesto disappunto moralistico nel pubblico benpensante che, perciò, non si entusiasmò alla prima, in quel 6 marzo 1853 alla Fenice di Venezia.
Benché la censura avesse provveduto a imporre la retrodatazione nel melodramma, era evidente e diretta la derivazione dal contemporaneo lavoro di Dumas Figlio, e lo stile musicale e poetico dell’opera di Verdi risultavano dichiaratamente ottocenteschi.
«Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi e per altri mille goffi scrupoli. Io lo faccio con tutto il piacere. Tutti gridavano quando io proposi un gobbo da mettere in scena. Ebbene: io ero felice di scrivere il Rigoletto».
La censura veneziana si era meritata la fama di liberalità e non si oppose alla messa in scena del melodramma verdiano, obiettando solo circa il titolo che, in origine, sarebbe dovuto essere “Amore e morte” e stranamente concordando su “La Traviata”, che sottintendeva ben più ardite implicazioni.
Al tempo di Verdi la censura impose che la vicenda fosse anticipata di un secolo, trasformando, in tal modo, un melodramma cronachistico in una tragedia storica e stemperando la provocazione insita nell’additare i contemporanei e la loro falsa e cinica morale come i veri responsabili della triste fine di Violetta(Margherita in Dumas).
Alla musica spetta il compito di evidenziare il contrasto tra la dimensione mondano-sentimentale e quella cupa, foriera di morte, di moralismo e rinuncia; in questa contrapposizione si manifesta la vera forza innovativa del romanticismo di Verdi: non la passione che conduce alla catastrofe e alla morte, quanto piuttosto l’emarginazione prodotta dall’ipocrita perbenismo e dal pregiudizio.
Il simbolo della frivolezza tragica della borghesia ottocentesca è quel valzer che, ora in scena, ora come riferimento fuori scena, ora come elemento ritmico dominante, ora come simbolo contrastante, accompagna l’intero svolgersi del melodramma.
Ma, de La Traviata, così come in Rigoletto, la censura si soffermò su superficiali e marginali aspetti e non colse le esplosive spinte rivoluzionarie dell’opera.
Il duetto tra Germont padre e Violetta (“Pura siccome un angelo”) è la contrapposizione tra il moralismo ottocentesco e i sentimenti più sinceri; non a caso Giorgio è stato spesso ritenuto un personaggio negativo e da disapprovare; tuttavia egli non ha altra colpa che quella di essere un uomo di un passato che intende proiettare la morale del tempo antico su un presente che è in magmatica evoluzione.
L’opera esordisce quasi esaltando il piacere quale veicolo di liberazione (“Sempre libera degg’io”), ma nell’uso del verbo “dovere” rivela una coazione al godimento; la condanna a concedersi che si compenetra con l’aspirazione alla liberazione.
La libertà dei costumi nelle cortigiane è una virtù per i pruriti dei potenti, ma diviene sacrilega allorché attenta alla sacralità della famiglia e del matrimonio, unico ambito in cui è lecito rivelare l’espressione della sessualità; al di fuori la si può “acquistare” da soggetti socialmente sottomessi. Carità pelosa.
Raffinata ed efficace è la retorica musicale adottata da Verdi e Piave, sarebbe lungo il solo elencarne le gemme.
La Traviata si sviluppa in 3 atti; i 2 estremi, il I e il III, si presentano continui, mentre il II è nettamente diviso in due sezioni, scene ben distinte.
Gli atti estremi sono preceduti da preludi strumentali ben sviluppati, al II spettano poche battute di mera “ambientazione”.
Il primo preludio espone immediatamente il “tema della morte di Violetta”; è scritto in 4/4, ma con incidentali accenti sforzati sull’ultimo tempo delle battute, creando degli azzoppamenti danzanti, diremmo, pensandoli collegati con gli innumerevoli, per qualche detrattore, troppi, valzer verdiani.
E’ retoricamente efficace ricondurre i levare accentati alle irregolarità affannose di un respiro che si fa rantolo mortale.
Nell’atmosfera di desolazione non può non comparire il tema dell’amore: “Amami, Alfredo!”, cantato dai violini, strumenti femminili, soprani.
A battuta 25 una cadenza evitata che dalla dominante va su un p con un accordo di settima diminuita su basso fermo, conduce, dopo 4 battute alla ripresa del tema d’amore da parte dei violoncelli, sempre in mi maggiore.
La melodia dell’amore è però, adesso, accompagnata da un secondo tema, “saltellante”, vezzoso, ammiccante, diciamo adescante; a battuta 29.
A battuta 33, notare la simmetria delle 4 battute per ogni spunto, i violoncelli propongono una variante del tema: qui è il protagonista in prima persona ad essere rappresentato e a cantare, come se il giovane innamorato uscisse dal gruppo, riprendesse il materiale sonoro, ovvero il sentimento ancora non conformato, e lo fa proprio scandendo una dichiarazione d’amore.
Toscanini aveva in grande considerazione questo frangente, e soleva scandire in 8 la frase; lo testimonia un’annotazione “di servizio” sulla partitura che il grande direttore adottava.
Il numero 2 è denominato “Introduzione” ed è Allegro brilantissimo e molto vivace. La descrizione della scena è meticolosa: salotto in casa di Violetta.
Piave ci vuole informare che ci sono porte su ogni lato e, sulla sinistra un caminetto ed uno specchio.
Violetta è seduta su un divano, sta conversando col dott. Grenvil.
Impianto in la maggiore, prima orchestra piena, poi solo fiati, come a differenziare la musica che è in scena con la musica che è il melodramma vero e proprio.
“La vita s’addoppia al giojr” e “l’amistà s’intreccia al diletto”.
Gastone propone un brindisi, Alfredo non è in vena, è troppo pensieroso e forse geloso delle attenzioni che tutti rivolgono a Violetta.
Quando, timidamente, il giovane si rivolge alla donna, chiedendole se lei gradisca un suo brindisi, ovvero, un motto, una breve poesia, ricevendone assenso, ad Alfredo sovviene l’ispirazione. Chissà che non l’abbia preparato e ripassato molte volte…
“Libiamo ne’ lieti calici” è un valzer in 3/8 in sib maggiore, una tonalità lontana, per alterazioni.
Verdi va prima a re maggiore, muove su una sottotonica (do bequadro) armonizzata con terza minore che diviene un secondo grado, funzionale a modulare a sib. C’è sorpresa, ma non sconcerto, esattamente come ci sorprende il cambio di umore e di decisione di Alfredo nel proporre il brindisi, ma non ci sconvolge…
Anche melodicamente Verdi sorprende senza sconvolgere, esordendo con una sesta maggiore, intervallo “proibito” nella scuola severa.
Violetta risponde all’invito, ma la sua è tutt’altro che una corrispondenza d’amore: “tra voi saprò dividere il tempo mio giocondo, tutto è follia nel mondo, ciò che non è piacer”.
V: La vita è nel tripudio
A: Quando non s’ami ancora
La dichiarazione esplicita di Alfredo si realizza in un Andantino in 3/8 in fa maggiore: “Un dì, felice, eterea”
Un giorno vide Violetta e da quel dì Alfredo visse di “ignoto amore”.
Che bella ambiguità testuale: ignoto perché inconfessato ovvero ignoto perchè egli non lo aveva ancora mai provato?
A-b-b-c-a-d-d-c è la sequenza delle rime; quella trita e banale cor/amor è così separata da altri versi da non destare stupore.
Anche l’aggettivo “altero” è sui generis.
Nella versione a stampa originaria si legge “ di quell’amor ch’è l’anima” non “palpito”.
“Altero” assume una funzione di controllo delle veementi pulsioni, come di un giovanotto non particolarmente avvezzo a gestire i tempi di un amplesso.
Violetta, un po’ incredula, un po’ timorosa di ferire Alfredo si affretta a precisare di poter offrire solo amicizia, di non conoscere amore e di non “soffrire” eroico ardore.
Frappone distanze e un po’ si prende gioco di Alfredo… “io sono franca, ingenua…altra cercar dovete”.
I due vengono interrotti dal sopraggiungere di Gastone, Violetta consegna una camelia ad Alfredo chiedendogli di riportarla allorché sarà appassita.
Il finale del I atto è tutto per Violetta. Il tormentone di La Traviata è l’affermazione “E’ strano”, un intercalare della Dama delle camelie.
Un couplet in fa minore, tonalità che è ben lontana, caratterialmente, dal clima festoso, è piuttosto di morte.
Sarìa per me sventura un serio amore?…Oh gioia ch’io non conobbi, essere amata amando”.
Ecco la chiave: essere amata da un uomo che la ami, non che la usi mercenariamente.
Amata da “lui che all’egre soglie ascese e nuova febbre accese destandomi all’amor” e si chiede “e sdegnarla poss’io?”
Alfredo canta fuori scena, “dal balcone” si legge sulla partitura, ma non sul libretto originario, la sua dichiarazione d’amore.
E’ nell’anima di Violetta che il canto del giovane riecheggia, il lab maggiore, relativa del fa minore d’impianto, e il 3/8.
La cabaletta “Sempre libera” è di complessa interpretazione, non di rado equivocata, come affermazione di frivolezza.
Il finale del I atto dichiara la condizione di Violetta, la sua coazione a mostrarsi libera “sempre libera degg’io folleggiare di gioja un gioja!”
Violetta non decide di restare libera e di rinunciare ad Alfredo, piuttosto impreca contro la propria condizione che le impone di mostrarsi libera e disponibile, suo malgrado.
Nasca il giorno e il giorno muoia…. ma non muti il mio pensier
Sul finale del I Atto si misurano e si sono misurati centinaia di soprani e, chiariamolo, su una variazione mai vagliata da Verdi e che, supponiamo, mai il musicista avrebbe approvato, ma, tant’è, ormai folle di loggionisti accorrono a teatro per ascoltare il famigerato mib acuto di Violetta, nel finale d’atto.
Non una nota finale, ma un suono in cadenza, che Verdi volle procedere di grado congiunto discendente, altro che salti di settima per raggiungere sovracuti e poi ridiscendere.
Per giungere in condizioni di riserva di fiato, non di rado i soprani tacciono per 1, 4, persino 8 battute.
Un compromesso tra filologia e prassi, può concedere il sovracuto, preparandolo, però, con una breve pausa vocale. Di 4 battute, che pure ascenderebbero ad un significativo do acuto.
Il secondo atto ci mostra i due amanti in una residenza di campagna, modesta, ma non troppo, dotata di un salotto terreno, di un patio.
La figura di Alfredo viene tratteggiata in tutta la sua mediocrità provinciale, ché di un provenzale emigrato a Parigi si tratta.
Piave ci informa che il ragazzotto è vestito da caccia, e da questa, probabilmente fa ritorno, mentre Violetta sta completando la cessione di tutti i suoi beni per consentire ai due una vita al di sopra dei mezzi, soprattutto dovendo, ella, mantenere uno sfaccendato che è orgoglioso da non chiedere sostegno alla sua famiglia, ma non disdegna di vivere del gruzzolo che la mondana ha accumulato con quel “che facesse lo sapete”.
Alfredo si preoccupa di appagare i suoi bollenti spiriti.
Irrita persino sentire che il provincialotto si dichiara rigenerato dalla vita che conduce a spese di Violetta. Rigenerato da cosa? Era forse egli malato? No, sta evitando di umiliarsi a chiedere al padre il denaro per accedere alle feste nei salotti di Flora o di Violetta!
Un macho che si autocompiace: gli uomini in Traviata non fanno bella mostra di loro, non c’è che dire.
L’accompagnamento strumentale per l’aria di Alfredo rimarca l’ardore giovanile, ma diremmo che con esso Verdi giudica e condanna.
Annina irrompe e da essa Alfredo apprende che la sua amante sta per alienare gli ultimi beni.
Verdi e Piave consentono ai meschini maschietti di Traviata di pentirsi nel breve volgere di una cabaletta.
Alfredo comprende di essere un mantenuto e, vestendosi da eroe si propone di lavare l’onta.
Per poco in seno acquetati, o grido dell’onore, m’avrai securo vindice; quest’onta laverò!
Qui, a seconda dei mezzi del tenore, l’onta si lava a bassa o ad alta temperatura, con ciclo breve o con tanto di centrifuga su un do acuto, anche questo non scritto, ma doveroso per sfuggire ai buati del loggione e alle invettive di critici poco attenti alle partiture e molto alla discografia.
Violetta attende uomini d’affari per completare le dismissioni, ma giunge Giorgio Germont, che, supponiamo conosca bene, e non diciamo quanto, la donna, ma, per qualificare il ruolo che il quel frangente egli ricopre precisa “D’Alfredo il padre in me vedete”, non un “fruitore finale” delle bellezze della ragazza, perciò.
Germont aggredisce, demolisce psicologicamente Violetta, la condanna.
“Pura siccome un angelo, Iddio mi diè una figlia” ecco, egli ha una figlia, sorella di Alfredo, che deve convolare a nozze, ma “l’amato e amante giovane” minaccia di rompere la promessa di matrimonio con la figlia di Germont perché Alfredo ha un amante.
Non si chiede a Violetta una temporanea separazione, ma un allontanamento definitivo.
Il cinquantenne vizioso si stupisce persino dei modi fini di Violetta, ma “il passato perché v’accusa!”, dopo che ha tirato un sospiro di sollievo apprendendo che Alfredo non ha assottigliato il partimonio di famiglia!
Ma le donnine dei salotti venivano forse pagate da Giorgio Gemont con assegni di accompagnamento della previdenza??
“Non sapete quale affetto vivo, immenso, m’arda in petto? (…) non sapete che colpita d’altro morbo è la mia vita? Che già presso il fin ne vedo? Ch’io mi separi da Alfredo! Ah, il supplizio è sì spietato che morir preferirò.”
Che bella sortita quella di Germont di ricordare che “un dì quando le veneri il tempo avrà fugate, fia presto il tedio a sorgere; Che sarà allor, pensate… per voi non avran balsamo i più soavi affetti poiché dal Ciel non furono tal nodi benedetti..”
Bigottismo che vale per Violetta, ma i nodi benedetti che legano lui, sono forse così labili da permettergli di muoversi disinvoltamente nei postriboli?
Ma Violetta è rassegnata al sacrificio:
Dite alla giovane, sì bella e pura,
ch’avvi una vittima della sventura,
cui resta un unico raggio di bene…
che a le il sagrifica e che morrà.
Uscito, dopo aver lasciato in lacrime Violetta, Germont, torna Alfredo che per un equivoco crede che Violetta lo stia tradendo per tornare alla vecchia vita.
Violetta saluta Alfredo in una scena appassionata, in cui il tema d’amore principale: “Amami, Alfredo, amami quanto io t’amo, addio.”
Ritorna Giorgio e completa il quadro pessimo di sé, chiedendo ad Alfredo di “riedere” in famiglia.
Di Provenza il mare, il suol, chi dal cor ti cancellò?
Alfredo accenna un’opposizione al padre, il quale non rivela di avere chiesto egli a Violetta di interrompere la relazione.
Eppure Violetta aveva chiesto:
Conosca il sagrifizio, che consumai d’amor…che sarà fin l’ultimo sospiro del mio cuor.
La cabaletta di Germont, spesso espunta, possiede una valenza drammaturgica: “No, non udrai rimproveri, copriam d’oblio il passato”.
Si arriva alla scena in casa di Flora, dove apprendiamo che Violetta si è prontamente accompagnata con il Barone Duphol.
Gli ospiti sono in costume di Zingarelle e Toreadori, ed è probabile che i signorotti avessero assoldato qualche compagnia di danzatori per allietare la festa.
Si tratta del secondo atto di un melodramma italiano, se Verdi inserisce in mero cambio di scena e non prevede un atto diverso è anche per non dare adito a ravvisare sembianze di grand opèra con tanto di balletto nel penultimo atto.
Qui Alfredo compirà l’ignobile gesto di ripagare Violetta , suscitando l’ira di Germont, che quando c’è una festa con donnine, non si fa pregare: “Di sprezzo degno, se stesso rende, chi pur nell’ira la donna offende”
E poi, goffamente, “Dov’è mio figlio? Più non lo vedo…”
La donna si offende pagandola, ma, a quanto pare, non tradendola.
L’atto si chiude sulla sfida di Duphol ad Alfredo di cui sapremo brevemente dalla lettera di Germont che Violetta leggerà nel terzo atto.
Il preludio orchestrale del terzo atto ripresenta il tema della morte di Violetta, ma ora mancano i guizzi del secondo tema, quelli della festa, del gioire frivolo.
La scena è unica e propone Violetta nel letto di morte, assistita da Annina e visitata dal dott. Grenvil
Il momento saliente è “Addio del passato” che è preceduto dalla lettera di Germont che informa del duello tra Alfredo e Duphol, dell’esito non tragico di esso, e, soprattutto, di aver rivelato al proprio figlio del sacrificio di Violetta.
E’ carnevale e qui Verdi ci regala un gioiello drammaturgico, facendoci sentire la banda e il coro fuori scena proporre una Parigi chiassosa e greve, volgare.
“Largo al quadrupede, sir della festa…
Parigini date passo
al trionfo del Bue grasso…
vanto ed orgoglio di ogni macello”.
Odore di sangue, di macello, di morte e tanfo di una città borghese che sacrifica amore e vita in nome di un onore che si esibisce sui doppi petti e i cilindri, ma che si infanga nei calzoni.
“Addio del passato” è una romanza in due strofe, ed è un delitto tagliare la seconda.
L’oboe annuncia la splendida pagina, impiantata in la minore, in 6/8, protetico, con una sezione in maggiore, che si apre alla speranza, come in un benessere che precede l’ultimo respiro.
Addio del passato, bei sogni ridenti,
le rose del volto già sono pallenti;
l’amore di Alfredo, pur esso mi manca,
conforto, sostegno dell’anima stanca…
Ah, della Traviata sorridi al desio
a lei, deh, perdona, Tu accoglila, o Dio.
Or tutto finì.
Le gioie, i dolori, tra poco avran fine,
La tomba ai mortali di tutto è confine!
Non lacrima o fiore avrà la mia fossa,
Non croce col nome che copra quest’ossa!
Ah, della Traviata sorridi al desio
a lei, deh, perdona, Tu accoglila, o Dio.
Or tutto finì.
Alfredo accorre al capezzale di Violetta, ma non smentisce la propria mediocrità.
Il duetto in lab, che il tenore introduce, unisce ipocrisia e avversione per la metropoli:
Parigi, o cara, noi lasceremo,
la vita uniti trascorreremo,
de’ corsi affanni compenso avrai,
la mia/tua salute rifiorirà,
sospiro e luce tu mi sarai
tutto il futuro ne arriderà
Alfredo è consapevole della fine imminente di Violetta; la donna attinge alle ultime forze per tentare di uscire e andare la tempio…
ma se tornando non m’hai salvato,
a niuno in terra salvarmi è dato.
Nell’ultimo duetto, strutturato in due strofe in cui i due si alternano.
Gran Dio!…morir sì giovane.. io che penato ho tanto!
e conclude con
Alfredo..,oh crudo termine, serbato al nostro amor
mentre il tenore replica:
Violetta mia, deh, calmati, m’uccide il tuo dolor !
Lo uccide il dolore di lei? Pensate che infelice espressione viene adoperata da Alfredo di fronte ad una donna che sta morendo. Il dolore, invece, ucciderebbe lui. Che pusillanime!
L’ultimo momento poetico di Violetta è dedicato alla futura sposa di Alfredo, naturalmente vergine, ci mancherebbe.
Se una pudica vergine
Degli anni suoi nel fiore
A te donasse il core
Sposa ti sia lo vo’.
Le porgi questa effigie:
Dille che dono ell’è
Di chi nel ciel tra gli angeli
Prega per lei, per te.
Germont, Annina e Grenvil dichiarano pentimento
Finché avrà il ciglio lacrime
Io piangerò per te
Vola à beati spiriti;
Iddio ti chiama a sé.
Violetta ritrova le ultime energie..ribadisce l’affermazione di meraviglia
E’ strano,
Cessarono
Gli spasmi del dolore.
In me rinasce… m’agita
Insolito vigore!
Ah! io ritorno a vivere
trasalendo
Oh gioia!