Reduce dal meritatissimo Premio Le Maschere 2016, è approdato il 6 aprile 2017 al Teatro Verdi di Salerno “Spaccanapoli Times” di Ruggero Cappuccio, di cui Oltrecultura ha recensito il debutto napoletano, così come riportiamo di seguito.
Se definissimo il delizioso lavoro in 2 atti di e con Ruggero Cappuccio come un quartetto sulla follia, si ingenererebbe un equivoco semantico che condurrebbe a immaginare un tema con variazioni sul celeberrimo tema seicentesco: e non sarebbe, in effetti un’interpretazione fuorviante, tanto polisemico è l’impianto drammaturgico.
Musica, letteratura, psicanalisi, pittura si contendono e poi condividono i dialoghi tra i quattro fratelli Acquaviva, che convengono, invitati dal primogenito Giuseppe, in un interno di Spaccanapoli le cui pareti sono realizzate interamente con bottiglie di acqua minerale.
L’autore, che ha affrontato un doppio debutto, il primo impegno da attore e la prima volta al Teatro San Ferdinando, mostrando un temerario sprezzo per la superstizione ha affidato alla Sinfonia di La forza del destino di Verdi il compito di introdurre e, in varie elaborazioni di Marco Betta, scandire il fluire dei due atti della vicenda.
Il melodramma ricopre un ruolo rilevante nella narrazione di Cappuccio; quella forma di divulgazione culturale che ha avuto il merito e la colpa di portare a conoscenza di un popolo scarsamente scolarizzato esprimentesi in decine di dialetti diversi, una letteratura ridotta e sminuzzata, che ha avuto l’esiziale demerito di azzerare ogni interesse altro e alto per l’ipotesto, fosse esso di Shakespeare come di Walter Scott o di Dumas…
La follia e la fatica di vivere una vita non propria, combattendo una guerra contro nemici subdoli che adoperano le armi persuasive e invasive dell’informazione e dei falsi bisogni.
“Trovatemi un uomo sano e io lo guarirò”: è la frase di Carl Jung che Giuseppe Acquaviva pronuncia in uno dei due monologhi di assoluta lucidità; quello del protagonista che compromette le finalità del convegno di famiglia, e che non riveleremo; e quello dell’ospite atteso, dalla postura andreottiana, che un delirio infarcito di metafore freudianamente ornitologiche e ittiologiche, rivela una frustrazione e un disagio psichico, quelli sì, senza apparente vie d’uscita.
Giuseppe è uno scrittore che detta i suoi romanzi al telefono ad un editore che li pubblica anonimi; l’egocentrismo creativo gli è più che estraneo, è rifuggito con maniacale tenacia.
Il testo gioca con le parole, ricercate al punto che ogni nome ha un preciso significato e una motivazione; con le storie personali di ciascun personaggio, che rivelano e riassumono persino il forzato e incompleto processo unitario dell’Italia e, soprattutto Cappuccio elabora e rimescola i dialetti e i pregiudizi, alla ricerca della sola identità unitaria possibile: la follia.
Ionesco e Campanile, assurdo e non sense ispirano la scrittura che giunge nitida e gradevolissima al pubblico grazie alla regia dello stesso autore, coadiuvato da Nadia Baldi, delle “fresche” scene di Nicola Rubertelli, degli onirici costumi di Carlo Poggioli e soprattutto per merito di tutti gli interpreti, primo tra tutti Cappuccio, impeccabile nei tempi, variegato nella timbrica vocale e misurato nelle interazioni che non sfiorano neppure l’avanspettacolarismo.
Tanto sensuale quanto psichicamente disturbata è la Gennara di Marina Sorrenti, una ancor giovane vedova che, sposatasi a Palermo, ha adottato il dialetto siculo come idioma principale; coinvolgente anche Gea Martire nel ruolo di Gabriella, mirmecofobica, che al solo nominare una formica smarrisce ogni controllo.
Vivacissimo e dai colori comici allucinati è stato Giovanni Esposito, interprete di Romualdo Acquaviva, pittore che distrugge le proprie opere appena ultimate, esilarante nella scena della macchinetta del caffè.
Giulio Cancelli si disimpegna bene interpretando l’imbarazzo del funzionario di banca, spasimante di Gennara.
Infine va citato Ciro Damiano, nel ruolo del dott.Lorenzi; cinico per mestiere, sadico per difesa, vendicativo per frustrazione.
Nella pomeridiana di cui vi diamo recensione, il pubblico era costituito, salvo isolate eccezioni, da giovanissimi e da anziani ed è stato di un certo interesse osservarne e ascoltarne le reazioni, tutte divertite, con picchi collocati in momenti diversi dello svolgersi della rappresentazione, ma con attenzione convergente durante i principali monologhi.
Un convincimento si fa formando nella mente dello spettatore, forse non rassicurante: solo la follia riesce a liberare dalla globalizzazione dei sani, che è altrettanto violenta e tirannica quanto quella economica, perchè uniforma quel variegato gradualismo neuro-psicotico nelle manifestazioni del quale si sviluppano le rivoluzioni.
Negli anni ’60 nel manicomio di Collegno avvenne la ribellione di un reparto intero di degenti, i quali si impossessarono di attrezzature, farmacia, strumentazioni di contenzione e persino del centralino e dell’amministrazione.
Quel reparto aveva un nome: Anarchici.
A proposito, il lettore si e ci chiederà quale fosse il motivo della riunione di famiglia, quale l’esito… rispondiamo citando Romualdo Acquaviva: “Non fate domande !” ovvero, andate a trovare da voi le risposte nel teatro.
Dario Ascoli