Data la vastissima produzione del nostro compositore, numerosi furono i poeti che offrirono, con diverso risultato, i testi per le romanze da camera.
Eduardo Rescigno, in un saggio dal titolo “Poeti di Tosti”, enumera circa 80 poeti, di vario rango, contemporanei e non del musicista, che fornirono testi per musica da camera.
La parità di genere, nella platea di poeti per Tosti, è quasi rispettata, potendo annoverarsi un discreto numero di poetesse, sulla qualità e sull’ispirazione di esse è talvolta preferibile stendere un velo pietoso.
Sia chiaro che non si vuole stabilire supremazie di genere, piuttosto è il criterio adottato da Tosti nello scegliere i versi per i suoi spartiti ad essere talvolta più che discutibile.
Le poetesse sono per il musicista portatrici di categorie di sentimenti sdolcinati, atti a far presa sul pubblico del gentil sesso che, nell’ Italia a cavallo tra XIX e XX secolo, patisce bassa scolarizzazione e un’immagine sociale di subalternità al maschio.
Non di rado le poetesse sono mogli o parenti di poeti di un certo rilievo, come Vittoria Aganoor (1855-1910), consorte del letterato e uomo politico Guido Pompilj, autrice di una romanza dedicata a Napoli, che si eleva dalla banalità: “Napoli dorme! Napoli Canta!”, del 1909. In essa il clima musicale e poetico assume tinte schubertiane, di cui Tosti sente il fascino, pur temendo confronti che è consapevole siano improponibili.
Tra gli esempi “peggiori”, invece, annoveriamo Eva Cattermole-Mancini, che scriveva sotto lo pseudonimo di Contessa Lara e che, in una vita burrascosa e costellata di numerosi amanti, trovava momenti di creatività non esaltante; anch’essa fu legata ad un poeta, sia pure in unione di alcova, essendo stata amante di Giovanni Alfredo Cesareo (1860-1937), anch’egli poeta tostiano.
Una tragica fine violenta concluse, a poco più di quarant’anni, una sregolata esistenza; la raccolta “Versi” venne pubblicata nel 1883, “E ancora versi” nel 1886 e, postuma, “Nuovi versi” venne data alla stampa nel 1897.
L’Editore Ricordi inserirà “Vuol piovere” in una raccolta del 1910, sostituendo lo pseudonimo Contessa Lara, con il quale la romanza musicata da Tosti era già stata pubblicata nel 1874, con il nome anagrafico della sventurata poetessa.
Un’altra “parente di” è Madonnina Malaspina (18?-1898), cognata di Arrigo Boito, per una poesia della quale Tosti compose una delicata romanza, introdotta da un preludio pianistico di rara bellezza: “Saprò morir” (1874).
Si tratta di un esempio di contrasto tra qualità musicale e banalità testuale, ovvero, prima la musica, poi le parole, ma di queste si faccia pure a meno!
Non di meno poeti, all’epoca come oggi del tutto sconosciuti, produssero testi di qualche valore per il Nostro.
E’ il caso di Leonardo Maria Cognetti, autore di “Vorrei morire!” che venne musicato splendidamente da Tosti nel 1878.
Non mancano, nel panorama degli autori, anche poeti stranieri per nascita e per idioma, come Paul Bourget (1852-1935) e Alfred de Musset (1810-1857), firme del naturalismo francese, apparentemente distanti dal clima letterario dei colleghi italiani.
Persino un poeta maledetto come Paul Verlaine (1844-1896) donerà “Rêve”, musicato nel 1893, mentre Victor Hugo (1802-1885) affiderà alle musiche di Tosti quattro romanze e sei melodie del ciclo “Les Orientales”, cui il musicista anteporrà un preludio pianistico.
Sporadici, invece, gli incontri con Théophile Gautier (1811-1872) e Alfred Tennyson (1809-1892), mentre a Charles Fuster (1866-1929) si devono i versi di sei “Melodies” del 1883 e a Edmond Haraucourt (1856-1941) quelli della deliziosa e dolente “Chanson de l’adieu”.
Le tematiche dei poeti italiani, invece, risentono, in parte, del clima risorgimentale che attraversa tutta la parabola biografica e creativa di Tosti.
In particolare Francesco Dall’Ongaro (1808-1873), mazziniano e patriota, compose gli “Stornelli italiani” con prosa scorrevole, lineare e non banale; eppure Tosti fu attratto da versi dal sapore salottiero, come in “Se siete buona”.
Anche versi popolareschi diventano occasione per ricevere melodie tostiane come per “Carmela” (1880) di Raffaele Salustri (1843-1892): argomento risorgimentale ma sentimento amoroso salottiero. Nella romanza, nel descrivere la vana attesa di un amato, a tratti sembra riecheggiare niente meno che Madama Butterfly di “Un bel dì vedremo”, mentre, sin dalle prime battute, ricorrono le citazioni dell’Inno garibaldino “Si scopron le tombe”. Magia di spirito di adattamento di Tosti!
L’elenco di poeti che solo sporadicamente e per diletto personale fornirono versi a Tosti consta di nomi quali: Ferdinando Martini (1841-1928), Rocco Pagliara (1857-1914), Giovanni Alfredo Cesareo, Francesco Cimmino (1862-1939), Carmelo Errico (1848-1892), Ferdinando Fontana (1850-1919), Riccardo Mazzola (1892-1922), Corrado Ricci (1858-1882), Antonio Fogazzaro (1842-1911) e naturalmente Gabriele D’Annunzio.
Poeti professionalmente impegnati con Tosti furono, traendone vantaggi economici: Francesco Dall’Ongaro, Emilio Praga (1839-1875), Lorenzo Stecchetti (1845-1916), Ada Negri (1870-1945) ed Enrico Panzacchi (1840-1904).
Tra scapigliatura e futurismo si muovono le firme letterarie per le romanze tostiane, ma il musicista tenne sempre un atteggiamento distaccato e neutrale che gli permise una totale flessibilità ideologica.
La poetica di Stecchetti rappresenta il confine diremmo sensuale più avanzato; le ragazze dei salotti borghesi sembrano o distanti, o talmente smaliziate da concedersi a metafore e allusioni piuttosto spinte e frasari di vita quotidiana assai distanti dalle patinate espressioni delle romanze del primo Tosti.
Bevi, bevi a tuo comodo, sta tranquilla,
che il conto è già pagato
(…)
m’han guastato lo stomaco le polpette dell’oste e i tuoi baci
troviamo nel Canzoniere di Stecchetti.
Ma Tosti è capace di limare e plasmare anche il linguaggio crudo del poeta futurista, come in “Spes, ultima Dea” (1879):
Ho detto al core, al mio povero core:
Perchè dunque sperar se amore è morto?
E m’ha risposto: chi non spera, muore
e in “Lutto” (1886):
Un senso d’amore trascorre per tutto,
La terra le sante sue nozze compì.
Io misera prendo le vesti di lutto,
Perché la speranza nel cor mi morì
Più che allusivo, invece, è il testo di “Sogno” (1886):
Ho sognato che stavi a ginocchi,
come un santo che prega il Signor,
mi guardavi nel fondo degli occhi,
sfavillava il tuo sguardo d’amor
Si deve a Carmelo Errico il testo poetico di una delle più celebri romanze: “Ideale”, ma anche di versi di ispirazione religiosa, come in “Ave Maria”.
Rocco Pagliara fu direttore amministrativo di San Pietro a Majella e poi bibliotecario dello stesso istituto, carica nella quale successe al Florimo; il Pagliara fu personaggio influente nella vita musicale napoletana e italiana e, buon amico e consigliere di Giuseppe Martucci, propose e indusse quest’ultimo a salire sul podio per dirigere opere wagneriane.
La visione europea, per tanto, del poeta ne guidò l’ispirazione su tematiche in cui affiorano echi di Tristan und Isolde, ovvero di amori romantici e distruzione per trasgressioni non commesse.
E’ una donna, quella che disegna Pagliara, incolpevole se non nel pregiudizio degli uomini e nella predestinazione di un fato.
Il più celebre componimento di questo poeta, musicato da Tosti è “Il canto di una vita”, da un originale inglese di Charles Bingham.
Artigiano instancabile fu invece Riccardo Mazzola, di cui, degna di memoria è solo la romanza “Tristezza”, per la quale Tosti realizzò una melodia languida, ma sostenuta da robusti accordi, quasi a creare un contrasto con l’abbandono della linea di canto.
Le tematiche di Ada Negri, veriste prima e populiste poi, non affascinano il musicista abruzzese, che nel corpus letterario della poetessa individua quei rari componimenti dal carattere salottiero e di intrattenimento, d’altra parte Tosti riuscirebbe a dare un senso di leggerezza mondana persino al passo evangelico delle Nozze di Cana!
“Strana” e “Te solo” sono i due titolo di Ada Negri musicati nel 1893 dal nostro compositore.
Grandi firme della letteratura compaiono con contributi isolati; troviamo Antonio Fogazzaro (1842-1911) con un solo testo, mentre, addirittura Carducci, figura come traduttore dal tedesco della lirica di Heinrich Heine (1797-1856), “Lungi”.
A testimonianza che intorno al personaggio Tosti si aggregano, o almeno si dispongono, letterati dalle poetiche e dalle ideologie assai distanti tra loro, troviamo Ferdinando Martini, scrittore liberale e asperrimo critico di D’Annunzio e di Pirandello, che fornisce i versi per la romanza “Lontan dagli occhi” (1877), con la sua morale amara: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Vena poetica franca e quasi spontanea è quella di Giovanni Alfredo Cesareo, che pur su un argomento sentimentale, riesce a conservare freschezza nella romanza “Un bacio” e in “Serenata”, che non rinuncia a riferimenti anche maliziosi.
Qui Tosti usa il pianoforte a imitazione di chitarra, come strumento suonato sotto il balcone di un’amata cui fare giungere un messaggio di sentimento, ma anche di desiderio.
«Privi di grandi pretese artistiche, i versi di Ugo Pesci formano un misto curioso di radi termini aulici in un contesto colloquiale, in cui ricorrono smitizzati, alcuni atteggiamenti sentimentali resi canonici dall’antica tradizione della lirica amorosa italiana» commenta il Sanvitale.
Le poesie di Pesci (1842-1908) rivelano, fin dal titolo, una retorica da luogo comune più trito, ricorrendo ad espressioni proverbiali: “Ride bene chi ride l’ultimo” e “Chi tardi arriva male alloggia” entrambe del 1877.
Il musicista e Napoli
La già capitale del Regno delle due Sicilie, benché avesse dovuto cedere il passo a Torino e poi a Roma, in campo musicale rimaneva, nei primi anni del XX secolo, su posizioni di assoluto privilegio e superiorità.
Cilea, Martucci, Alfano, Platania, con diversi gradi di notorietà, dominavano la scena non solo italiana; ma è nel campo della musica di consumo, diremmo per sintesi, della canzone, che Napoli e la sua lingua hanno dominato la letteratura musicale del mondo intero.
E’ così che, come i musicisti fiamminghi nel XVI e XVII secolo componevano villanelle in lingua napoletana, nel secolo scorso, anche compositori e poeti nati altrove, si misurarono con la canzone napoletana.
D’altra parte così era accaduto per il bergamasco Donizetti e in misura diversa, per il marchigiano Rossini e, in fondo, per il catanese, cittadino del Regno, Vincenzo Bellini. Non poteva, perciò, un musicista di schietta scuola napoletana come Tosti esimersi dal comporre per versi che al suo tempo si definirono impropriamente “vernacolari” nell’idioma partenopeo e, naturalmente, adottando modi ritmici e melodici propri della modalità di ascendenza frigia, che più semplicemente diremmo della “scala napoletana”.
I poeti che fornirono i versi per due tra le più apprezzate romanze tostiane furono Salvatore Di Giacomo e Gabriele D’Annunzio, questi aveva abbandonato gli pseudonimi di Mario de’ Fiori e Mario dell’Erbe, sotto cui si era celato persino con lo stesso Tosti.
In totale saranno sette le romanze in lingua napoletana musicate da Tosti, di cui quattro su lirica di Di Giacomo: “Marechiaro” (1885), “Tutto se scorda”, “Comme va”, “Serenata allera”.
Isolata è la collaborazione con il poeta Ferdinando Russo (1866-1927), da cui nasce “Chi sa!”, e con Carlo D’Ormeville per “Napoli”.
Da due artisti abruzzesi nascerà “’A vucchella” (1907), su una lirica in un napoletano approssimativo e retorico, infarcito di termini tratti da canzoni e poesie coeve, forzando rime banali:
“Dammillo – Pigliatillo – Piccerillo”, per passare all’assonanza di “Vucchella” con “Rusella” e con “Appassuliatella”.
E anche per il nome dell’amata, la scelta cade su una “Cannetella” di rimembranza primo ottocentesca.
Sulle origini e sull’ispirazione di “’A vucchella”, aneddotica, storia e leggenda si intrecciano, e non potrebbe essere diversamente quando il protagonista è il Vate, con la cifra di esuberante sregolatezza.
Circolò l’aneddoto che faceva risalire il testo ad una goliardica scommessa del poeta circa la capacità di comporre rapidamente versi in lingua napoletana per destinarli ad una canzone di successo; sull’argomento e sull’esaltazione della sensualità della bocca di Cannetella, il ricordo va anche alla poetica lasciva di Lorenzo Stecchetti e del suo Sogno con la metafora nemmeno troppo nascosta di sessualità orale.
«A Posillipo, nel 1892, per una scommessa faceta con Ferdinando Russo e Salvatore Di Giacomo, composi in pochi minuti ‘A vucchella» rivela lo stesso poeta nel 1929, in una nota pubblicata solo nel 1977.
Altre versioni si contendono la verità sulle circostanze della composizione: Ferdinando Russo racconta come ‘A vucchella fosse nata nella redazione di Il Mattino, in soli cinque minuti, mentre Salvatore Maturanzo, nel suo libro “D’Annunzio poeta soldato”, sostiene che il poeta abruzzese avesse composto quei versi improvvisandoli nel ristorante partenopeo “Scoglio di Frisio”, dopo qualche gustosa pietanza e più di un quartino di buon vino.
La musica di Tosti in questa circostanza è di rara bellezza nella semplicità di armonie che mutano per innalzamento cromatico del basso sul battere delle misure, mentre il canto resta fermo con note legate.
Le relazioni dissonanti, perciò, non presentano alcuna difficoltà di intonazione, poiché si generano su note tenute della linea di canto.
Quale sia stato il complesso ispirativo diviene irrilevante al cospetto di una gemma musicale tratta dallo scrigno di Francesco Paolo Tosti.
Anche per Marechiaro la narrazione della genesi è ricca e articolata; si parla di un modesto e molesto suonatore di flauto che ostinatamente eseguiva una breve frase dalle tinte melodiche napoletane.
Quella frase sarebbe diventata, si dice, per comune accordo tra il poeta Di Giacomo e il nostro musicista, l’incipit introduttivo di Marechiaro, canzone dal contenuto poetico alto e vario tra le strofe.
Qui la donna amata è Carolina e a lei viene dedicata una serenata accompagnata da una chitarra, intonata in quel magico angolo di Posillipo, Marechiaro, appunto, tanto stimolante da indurre i pesci del golfo ad amoreggiare.
Ma l’aspetto singolare è che, a differenza della stragrande maggioranza delle serenate, il cui etimo rimanda a serenità e quindi a riposo e sonno, in Marechiaro il cantore innamorato invoca il risveglio della sua amata Carolina: “Scetate, Carulì, ca l’aria è doce”.
La melodia è costellata di intervalli di seconda aumentata, come nelle scale minori armoniche, e di secondi gradi minori abbassati, che però vengono per così dire smentiti, dalle frequenti transizioni in modo maggiore.
E’ quell’alternarsi di sentimento e di desiderio, che inducono l’innamorato a venir meno all’intento di indurre il sonno all’amata, forse per recarla a sé sulle afrodisiache rive della baia di Napoli.
Recenti acquisizioni filologiche, tra l’altro, hanno portato a individuare una etimologia secondaria, ma affascinante e tutta napoletana, della parola “serenata”, che in scritti del Seicento circa le Delizie di Posillipo, rimanda, non solo per assonanza, a Sirena, con tutto il portato mitologico che accompagna Partenope e le origini di Napoli.
Meno fortuna hanno avuto le altre canzoni firmate Di Giacomo-Tosti, “Tutto se scorda” e “Comme va”, entrambe del 1893.
La poetica della prima è raffinata e gioca anche sulla retorica testuale della sinonimia tra scordare, nel senso di perdere l’accordatura dello strumento e in quello di dimenticare.
Tutto, tutto se scorda, tutto se cagna, o more! (…)
Ogge sì tu: dimane, forse, n’ata sarà, e po’ n’ata,
chi sa, si tiempo ce rummane (…)
e nu suono ca sceta tante cose addormute,
o luntane, o fernute, esce ‘a sotto sti ddeta (…)
e na chitarra è ammore ca nun tene una corda
Il fluire eraclitiano del panta rei, si scontra con la rimembranza amorosa, la ferita che non si sana.
E’ un tema caro a Di Giacomo, che ritroveremo, ad esempio, in “Era de maggio”.
“Comme va”, invece, è una breve lirica pungente che sfrutta la ripetizione nella strofa cui Tosti attribuisce una musica ritmica incalzante e stringente.
Nel 1901 ancora una collaborazione con Di Giacomo, l’ultima, porterà Tosti a comporre “Serenata allera”, un brano popolaresco, che stranamente, però, concede poco allo stile napoletano.
L’anno successivo sarà Ferdinando Russo a fornire al nostro musicista la lirica di “Chi sa!”, cui gli autori attribuiscono il sottotitolo di “Vecchia canzone napoletana”, come a scusarsi per il linguaggio ottocentesco, soprattutto in considerazione della fama di Ferdinando Russo quale inventore del nuovo emergente genere della “macchietta”.
Si narra di una donna solitaria e triste che il poeta vorrebbe consolare, temendo però di non riuscirvi:
Ma po’ penzo, chi sa! Ca si mmorta,
e ‘o curaggio, accussì, m’abbandona
E un ricorrente:
Tu ca nun cante nisciuna canzona,
sola e muta, a che pienze? Chi sa!
In conclusione citiamo quella che, viceversa, è stata la prima esperienza di Tosti su un testo ispirato a Napoli, pure se in lingua italiana, quella canzone nata nel 1881, originariamente per due voci, su poesia di Carlo D’Ormeville: “Napoli”
Era un esempio manieristico e retorico, ma ha rappresentato l’avvicinamento del nostro autore all’argomento; quattordici anni dopo, però, la stessa musica venne versificata da Di Giacomo, per la Piedigrotta, con un testo in napoletano dal titolo “Napule!…”, che sembra riferirsi al ritorno in patria dell’Odisseo della Romanza, Tosti.
Un capitolo a sé stante meriterebbero le amicizie intellettuali femminili del nostro compositore.
In relazione a quello che, non per residenza ma per ispirazione chiameremmo “periodo napoletano”, la scrittrice e giornalista Matilde Serao (1856-1927) ha giocato un ruolo assolutamente determinante per molti aspetti.
Innanzitutto l’intellettuale napoletana rappresentò un tramite tra il musicista e i poeti napoletani, inoltre, lungo molti anni Matilde Serao fu amica epistolare di Tosti e triangolatrice di relazioni tra il nostro e la coppia Gabriele D’Annunzio Eleonora Duse.
La scrittrice era nata a Patrasso, in Grecia, ma si era formata e naturalizzata napoletana già nel corso dei suoi studi; maritatasi con Edoardo Scarfoglio, dopo avere collaborato con il Corriere del Mattino e poi con il Corriere di Roma e il Corriere di Napoli, fu condirettrice della storica testata Il Mattino.
Fu nel Cenacolo, frequentato e animato dal pittore Michetti, che l’amicizia tra Tosti, D’Annunzio, Eleonora Duse e Matilde Serao ebbe inizio e si sviluppò, come racconta un articolo scritto dalla giornalista a Nizza nel 1898. Qui il musicista viene riaccreditato come italiano e persino la sua provenienza regionale diviene, per elezione, meridionale:
«E’ in un pomeriggio tiepido e odoroso di primavera, nel fondo in un vasto, ombroso giardino tranquillo al sole, in una stanza tutta piena della soave presenza di una donna tenera e spirituale che io ho udito ancora cantare al pianoforte colui che le grandi dame inglesi chiamavano “L’Usignuolo”, colui che l’Inghilterra trattiene e tiene da venti anni, Francesco Paolo Tosti.
E altri pomeriggi assai lontani, altre sere assai lontane, mi sono riapparse evocate dalla voce che ci fu nota e cara: pomeriggi romani innanzi a una bellezza di cose più augusta e più profonda: sere romane quando, dalle finestre aperte, sotto la luna biancheggiavano le piazze austere e deserte e le colonne di marmo vi si allungavano in ombre strane sulle pietre (…)
Ecco, la maturità non ha non mutato Francesco Paolo Tosti, lo ha semplicemente trasformato: venti anni di Inghilterra non hanno cancellato in lui né l’Italiano, né il meridionale, ma ne hanno educato la foga e la fiamma».
Mariapaola Meo