Quei due! L’ultimo bottone e Tre mesi dopo, omaggio della Compagnia dell’Eclissi a Eduardo.

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L’inventiva dei truffatori sembra non avere mai fine. “Quei due!” L’ultimo Bottone e Tre mesi dopo è una storia di raggiri, con due impostori gentili che, più che lo sdegno, attirano la benevolenza del pubblico. Con quest’ultimo allestimento la Compagnia dell’Eclissi omaggia Eduardo De Filippo ed il suo teatro inizi anni trenta del Novecento, poco rappresentato ma intriso di una comicità farsesca, con battute pronte ed equivoci improvvisi, da sfondo, ad affacciarsi, un umorismo dal risvolto tragico, che caratterizzerà tutta la successiva produzione del grande autore. Il titolo è quello di un film girato nel 1935 dal regista salernitano Gennaro Righelli, su soggetto e sceneggiatura di Eduardo.
I due atti unici “L’ultimo Bottone” (1932) e “Tre mesi dopo” (1934) avevano come protagonisti due truffatori, Carlino con la sua comica inettitudine, stralunato nipote di Giacomo, quest’ultimo con il suo atteggiarsi da uomo di mondo, ideatore di espedienti truffaldini, un’umanità in realtà molto sofferente, stremata ma sempre speranzosa.
Il primo dei due atti unici fu rappresentato a Napoli al Teatro Kursaal dalla compagnia “Teatro Umoristico I De Filippo”, seppe divertire molto e ne seguirono apprezzate repliche fino al 1943, il prosieguo andò in scena nel febbraio del 1934. Quest’ultimo una vera chicca, il copione si riteneva smarrito, poi fu ritrovato, come canovaccio dattiloscritto del suggeritore, appuntato e scritto a mano nell’Archivio De Filippo. Un successo di altri tempi, si potrebbe dire, fatto di storie semplici e collaudati congegni comici, per un pubblico altrettanto ingenuo. La riscrittura di Felice Avella, con la collaborazione di Marcello Andria e Marco De Simone, in scena il 24 febbraio 2019 al Teatro Genovesi di Salerno, in una delle primissime repliche, oltre a registrare il tutto esaurito, è stata apprezzata anche da un pubblico meno ingenuo, ma aperto alla risata e forse desideroso di divertirsi con semplicità. Un unico atto, felicemente accorpato in circa un’ora e quaranta di spettacolo, con prologo, intermezzo e finale di pura invenzione, questi ultimi veri e propri divertissement per presentare i due personaggi con i loro caratteri, tic e debolezze. Felice Avella e Marco De Simone, rispettivamente zio e nipote, sono prima in platea, nella scena finale dietro le grate di Poggioreale, tra loro è un battibecco continuo sul comune destino di essere sempre insieme, nella vita come in carcere. Lo zio Giacomo ostenta esperienza, è lui la fucina creativa dei congegni disonesti per fare soldi, il nipote Carlino, un giovanottone svanito e occhialuto, dalle movenze goffe e alquanto inetto, ‘ncacaglià (balbettare a Napoli) per giunta, è l’artefice degli smascheramenti che spesso spalancano loro le porte del carcere. Nei collaudati meccanismi della ripetizione, sia gestuale che verbale, dove palpabile è quell’arte dell’arrangiarsi che a Napoli è sempre in bilico, tra genio e abusivismo, si annida il germe più spontaneo della risata. Ma anche nell’intreccio, che è un intaglio di vita reale e di personaggi, con simpatiche manie ma anche strane patologie, Eduardo Bottone (Mario De Caro) nobile decaduto con debiti d’onore da saldare, Francesca (Rossella Cuccia) è l’immancabile servetta, fedele ma alquanto ignorante, il dottor Pietro Sciarretta (Vincenzo Tota) è il geniale ideatore di un marchingegno, la perdita della memoria, per evitare il pagamento. I nostri, ignari della vera condizione economica del marchese, si presentano come zio e cugino di quest’ultimo, con l’intento di approfittare della presunta ricchezza. Giulia (Marica De Vita) ricca fidanzata di Eduardo, credendoli veri parenti, dona loro diecimila lire per saldare i primi debiti, ma una serie di malintesi faranno venire a galla la verità. Ad una guardia che sale a casa per tutt’altro motivo lo sprovveduto Carlino, tra mille impacci, confesserà la truffa, addossandone l’ideazione allo zio. L’intermezzo è ancora un refrain dei battibecchi tra zio e nipote, che si preparano al secondo tentativo di truffa, ricattare la giovane moglie (Annalaura Mauriello) di un geloso avvocato, che avrebbe inviato tre lettere, poi intercettate, ad un suo corteggiatore. L’infedele donna è spalleggiata da una mamma molto emotiva (Lea Di Napoli), mentre i due compari, dopo varie traversie che ruotano intorno ad uno scambio di lettere e un prezioso portagioie di cui di smarrisce la chiave, vengono smascherati. La scenografia originale (Luca Capogrosso/progetto grafico Giulio Iannece) nell’essenzialità di quinte fisse, con disegni giocati tra il bianco/grigio/nero, evoca quasi un cinematografo anni Trenta. Una riuscita intuizione, che fa risaltare la gestualità degli attori ed i loro costumi di sobria semplicità (Angela Guerra), del tutto lontani dal dejà vu della classica ambientazione borghese. Ma anche le scelte registiche immettono linfa contemporanea al nobile genere teatrale della farsa. Marcello Andria, la cui regia si distingue per asciuttezza e rigore, mette al meglio il suo stile a servizio di questo teatro eduardiano della prima ora, con grande rigore filologico e senza sbavature di sorta. Sono salvi gli ingredienti necessari al funzionamento della farsa. Il ritmo è giusto, mentre la coralità scenica è un puzzle che scommette sui singoli interpreti, ognuno ben inserito nei ruoli, per creare un’alchimia di un lavoro teatrale egregiamente riuscito. Gli attori non scadono mai nella macchietta, dando prova di tempistica attoriale e disciplina recitativa. E non solo per gli attori più esperti, Felice Avella in testa, grande mattatore della serata, trainante per la sua verve dialettica e l’assoluta padronanza del palcoscenico. O per un bifronte Vincenzo Tota, passato con versatile disinvoltura dalla compostezza del ruolo del dottore, al caricaturale personaggio della seconda parte, un allampanato cliente del geloso marito, occhi strabuzzati e capigliatura scomposta, personaggio tutto da ridere. Il giovane Marco De Simone, stralunato nipote dagli spessi occhiali a fondo di bottiglia, convince molto nel ruolo, spesso ed impegnativo, quanto quello dello zio. Una proposta teatrale che si è rivelata felice. Fatta di risate e buonumore, di comicità mai sguaiata ma briosa ed effervescente, un’opera del grande drammaturgo che, seppur minore, conserva il sapore delle buone cose di una volta, alla versatile Compagnia dell’Eclissi tutto il merito della riscoperta.

Marisa Paladino

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