Al TCBO il senso comune del pubblico non salva un Don Carlo ottimamente cantato

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C’era tanta attesa per il Don Carlo del TCBO. Sarà stato per il cast di primissimo livello o per la firma di regia, ma da questa rappresentazione verdiana ci si aspettava veramente tanto. Partiamo dalla fine, ossia dal chiacchiericcio velenoso in sala al termine della recita che ci ha portato a chiederci se il giudizio del pubblico sia sempre così corretto.
Non è mai facile parlare del Don Carlo. Già dopo la prima parigina furono in molti a non comprendere le scelte di Verdi. Il sospetto che il compositore avesse accettato più per motivi di piaggeria politica che per reale ispirazione trovarono molte conferme nelle vicissitudini che accompagnarono la nascita dell’opera.
Il Don Carlos fu commissionato nel 1865 dall’editore francese Léon Escudier allorché Verdi scelse- tra le molteplici proposte -di musicare l’omonimo testo di Schiller. Erano già molti anni che Verdi girava attorno a questo soggetto. Nel 1863, infatti, in occasione della prima madrilena della Forza del destino, visitando l’Escorial scrisse: «È severo, terribile come il feroce sovrano che l’ha costruito». Filippo II, per l’appunto, avrà un ruolo centrale nel suo Don Carlos. L’opera, destinata al Teatro dell’Opéra di Parigi, ebbe soprattutto il compito di compiacere Napoleone III.  Eppure Verdi quando seppe che l’Austria aveva ceduto Venezia alla Francia provò anche a rescindere il contratto per risentimento patriottico. Ma nulla poté l’indignazione contro la ragion politica: così la prima dell’opera andò in scena al Teatro dell’Opéra l’11 marzo 1867. Ma c’era ben poco del Verdi del Rigoletto o del Trovatore. «Verdi non è più italiano. Vuole scrivere come Wagner… Non ha più nessuno dei suoi difetti, ma ha perso anche tutte le sue qualità» commentò Bizet e non aveva tutti i torti. L’autore aveva sacrificato i capisaldi propri del suo stile per adattare l’opera al gusto francese che prediligeva gli aspetti più coreografici al bel canto.
La prima stesura non convinse nemmeno l’autore che rimise mano più e più volte alla partitura fino al 1882, anno in cui furono apportati al libretto cambiamenti radicali. Il 10 gennaio 1884 dopo mesi di intenso lavoro andò in scena alla Scala di Milano un nuovo Don Carlos in quattro atti (nella prima versione erano cinque): «Il Don Carlos è ora ridotto in quattro atti, sarà più comodo, e credo anche migliore, artisticamente parlando. Più concisione e più nerbo».
La versione presentata al TCBO è, per l’appunto, quella milanese in quattro atti. Sono passati anni e le perplessità su un’opera troppo lunga e monotona non si sono mai veramente dissolte.  Anzi, ed è il caso della recita bolognese, talvolta i dubbi sono stati ulteriormente fomentati da scelte registiche ardite.
Che dire del borbottio del pubblico in sala? Per esprimere un’opinione su questa messa in scena dobbiamo dividere il dominio della critica in due quadranti tanto è disomogeneo il giudizio. Da una parte l’idea registica, dall’altra la musica.
Il nome Henning Brockhaus ha destato grande attesa. Sarebbe ingeneroso dire che la regia sia stata la maggiore responsabile delle perplessità del pubblico eppure le maggiori critiche si sono mosse in quella direzione. Sono giuste? In parte. La scenografia firmata da Nicola Rubertelli non sarebbe nemmeno brutta con mastodontiche pareti che si muovono sul palco per creare spazi scenici virtuali che vengono irradiati da luci abbaglianti. Si capisce subito che è stata scelta una direzione più simbolica che descrittiva.  Qui nascono i problemi: il simbolismo non è stato di facile comprensione e talvolta l’insieme è risultato troppo slegato rispetto all’azione. Veramente Kitsch il trono barocco che ospita un Grande Inquisitore vestito in stile Matrix. Ma le critiche non hanno riguardato solo l’abuso di astrattismo. In realtà non ha convinto anche la presenza degli attori sul palco che sono sembrati sempre spaesati e mai veramente integrati nella vicenda dal punto di vista attoriale. Non hanno emozionato nemmeno i costumi di Giancarlo Colis. Dispiace dirlo, ma le critiche del pubblico non sono sembrate immotivate.
Non immotivate ma di certo eccessive. Musicalmente il Don Carlo bolognese è stato molto apprezzabile. Esaltante la batteria vocale. Nulla da eccepire per quanto riguarda le voci maschili. Il Don Carlo di Roberto Aronica ha voce potente e limpida che coinvolge per ricchezza. Luca Salsi, nei panni di Rodrigo,  ha confermato quanto di buono si dice sul suo conto per padronanza tecnica e capacità espressiva. Monocorde, invece, ma senza sbavature il Filippo di Dmitry Beloselskiy.
Tra le donne La Principessa Eboli, interpretata da un’acclamatissima Veronica Simeoni, ha surclassato la più che dignitosa Elisabetta di Maria José Siri. Se fossimo stati in Don Carlo non avremmo avuto alcun dubbio.

Una garanzia è stata la direzione di Michele Mariotti che anche questa volta è riuscito a gestire i tempi orchestrali con grande padronanza. Se riuscisse anche ad “aggiustare” gli ottoni meriterebbe una targa honoris causa. Del coro di Andrea Faidutti non possiamo che ribadire il solito (e ormai scontato) giudizio positivo.
Abbiamo ascoltato un’ottima recita. Ma l’opera non è solo musica e dagli occhi arrivano tutte le perplessità per un Don Carlo dalla regia discutibile. Avremmo anche salvato Brockhaus con motivazioni cervellotiche e metafisiche. Poi il senso comune del pubblico ci ha riportato sulla terra, e non a torto.

Ciro Scannapieco

Foto Casaluci ©

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