Quando Oren dirige Puccini, non ce n’è per nessuno e Alfano applaude Turandot e poi la completa

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Ultima opera a conclusione del ricchissimo calendario della Stagione lirica di Balletto e di Concerti 2022, coincidente con il centocinquantenario della nascita del Teatro Verdi di Salerno, una  «Turandot»  di alto livello musicale è andata in scena il 26 dicembre scorso (unica replica prevista il 28 seguente) presso il Massimo salernitano.
Lo spettacolo si è fregiato di un cast di eccezione costituito per gli interpreti principali  dal soprano ucraino Oksana Dyka nel ruolo di Turandot, Jorge de Leòn in quello di Calaf, Lianna Haroutounian in veste di Liù.
Protagonista di primo piano  della resa musicale del capolavoro pucciniano è stata d’altronde  l’Orchestra del Verdi al pieno dei suoi componenti (con anche una compagine dietro la scena), diretta come sempre alla grande dal maestro Daniel Oren con la giusta attenzione all’andamento sia incalzante e narrativo della partitura che a quello fiabesco ed esotico con il risalto di timbri  ben individualizzati e ritmi implacabili, pur sempre pronto ad assecondare le voci, catturando il pubblico nella magia del più complesso lavoro di Puccini, vissuto dallo stesso autore come una sfida, per cui così commentava: «…tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più», consapevole del rinnovamento del melodramma italiano qui affrontato.
L’accuratezza della scrittura strumentale di Puccini in questo suo ultimo lavoro in cui il compositore si affacciava al Novecento con una ricerca innovativa sul linguaggio musicale che prende in considerazione nuovi agglomerati armonici, arcaismi modali, scale pentatoniche, la politonalità, guardando  fra l’altro a Debussy, Casella, Stravinskij e financo Schönberg, è venuta fuori da una direzione asciutta, sostenuta e in ogni caso intensa e pronta ad aseecondare le voci, attenta sia ai preziosismi  che ai forti contrasti e al volume massiccio  dei momenti collettivi cui il Coro del Teatro dell’ Opera di Salerno ha offerto  tutto il suo poderoso apporto bravamente diretto da Armando Tasso.
Ad  affiancarlo, il Coro di voci bianche del teatro che ha dato ottima prova sotto la direzione ormai collaudata di Silvana Noschese.
Il personaggio di Turandot ha avuto in Oksana Dyka (nella foto) un’interprete ieratica e una personalità vocale assolutamente conforme al tipo di vocalità  richiesto da Puccini per questa figura diversa da tutte le altre figure femminili del suo teatro, dotata quindi di una voce potente,  tagliente, incisiva negli acuti impervi in una linea di canto fratta, antimelodica, volutamente lontana  dai consueti fraseggi morbidi e lirici, ma adatta a rendere la natura algida di questo personaggio appartenente ad una dimensione contradittoria di assoluta purezza e crudeltà, ben incarnata anche dal tipo di gestualità suggerito dalla regia di Riccardo Canessa che ne coglie in ogni caso anche la parte di donna nel momento in cui risulta spiazzata, incuriosita e turbata dal valoroso pretendente Calaf.
In contrasto con essa  la passionalità di quest’ultimo  reso dalla bellissima voce del tenore spagnolo Jorge Leòn , musicalissimo, di disinvolta presenza scenica e padrone del suo registro vocale profondo  e pieno anche sul famoso acuto del «Nessun dorma» lungamento applaudito e bissato su richiesta di un pubblico entusiasta.
Sul versante lirico, la Haroutounian, soprano lirico spinto,  ha brillantemente reso una Liù commovente attraverso una voce di grande duttiltà e bellezza.
Il retaggio del teatro delle maschere di Gozzi è stato rappresentato da Costantino Finucci, Enzo Peroni  e Francesco Pittari nei panni dei tre ministri Ping, Pang  Pong scenicamente efficaci nei loro toni sia vocali che attoriali, ora buffi, ora sarcastici e beffardi, ora nostalgici nel famoso «Ho una casa nell’Honan» all’incipit del secondo atto in cui rievocano i tempi felici lontani dall’epoca delittuosa di Turandot che condanna a morte tutti i suoi pretendenti incapaci di sciogliere i difficili enigmi, così vendicando, con una trovata di Puccini e del librettista Adami, esulante dall’originale gozziano di «Turandotte»,  lo stupro e l’uccisione dell’ ava Lo-u-Ling.
Le loro vesti variopinte e orientaleggianti, sono alternate a frac e papillon da persone di spettacolo ad apertura del secondo atto separati da un velo dal resto della scena, a evidenziare non a caso il loro ruolo di teatranti da cabaret,  preparati alla scena con tanto di belletto da truccatrici, in una felice sottolineatura metateatrale della loro funzione, in una sorta di intermezzo prima che le trombe interrompano i sogni e immettano nella tesa cerimonia degli enigmi.
A completare il cast Carlo Striuli ben calato sia vocalmente che scenicamente nel personaggio del vecchio Timur, Salvatore Minopoli in quello di  Altoum, Angelo Nardinocchi, un Mandarino, Nazareno Darzillo, il Principe di Persia. La regia di Riccardo Canessa oltre a sottolineare con efficacia determinati tratti psicologici e ruoli teatrali dei personaggi ha seguito le indicazioni  pucciniane, con la scelta di un allestimento tradizionale ma semplice e funzionale allo spazio ridotto di un palcoscenico come quello del teatro Verdi, coadiuvato dalle agili scenografie del sempre immaginifico Alfredo Troisi e dalle coreografie discrete di Corona Paone,  in modo da favorire i corretti equilibri scenici senza rinunciare alla  atmosfera  fiabesca  marcata tra l’atro da draghi dorati, proiezioni, i bei costumi di Troisi.
L’immagine di Puccini, proiettata sul velo separatorio, calato alla morte di Liù ha appropriatamente segnato il momento conclusivo della partitura scritta dall’autore lì terminata per il soppraggiungere della  morte del compositore, separandola dal completamento realizzaato da Franco Alfano coincidente con lo sgelamento della princiessa e la trionfale unione dei protagonisti.
Prolungati applausi hanno accolto uno spettacolo ricco di dettagli e musicalmente eccellente.

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