Al San Carlo una Bohème che canta la poesia degli ultimi
Tiepidi applausi per il cast e disapprovazioni per la regia
Dario Ascoli /d.ascoli.corriere@gmx.com – CorriereTV
In un periodo in cui i cartelloni offrono riprese di allestimenti più o meno recenti, la riproposizione da mercoledì 16 gennaio al San Carlo di La Bohème con la regia di Francesco Saponaro ha una ragion d’essere. Mimì è una giovane donna delle periferie di una e di tutte le metropoli; della Parigi dell’Ottocento che cerca di opporsi all’industrializzazione spersonalizzante che trasforma le grandi città in musei a cielo aperto circondate da quartieri dormitorio, come della Napoli del secolo successivo, che non sa opporsi alla desertificante deindustrializzazione delle periferie post-industriali degradate.
Il regista napoletano propone letture storico-materialistiche con un linguaggio poetico che descrive una società desiderosa di evoluzione e di riscatto. La quasi scomparsa nella narrazione di Saponaro della Parigi radicata nell’immaginario non ha incontrato i favori del pubblico. Mimì è dipinta come una donna del popolo, ricattata dal cinismo ipocrita e dai vizi della classe dominante e lo struggente finale, in cui i resti mortali della fragile fioraia vengono sottratti all’abbraccio di Rodolfo per essere portati in spalla dai ragazzi del popolo delle periferie, è una poetica denuncia sociale. Elementi scenografici, e non solo, creano un doppio legame tra Parigi e Napoli, con un Vesuvio a dominare i “cieli bigi” e i “mille comignoli” di Parigi rubando più che contendendo la scena a una minuscola Torre Eiffel, mentre l’azione teatrale strizza garbatamente l’occhio a Eduardo Scarpetta: nobiltà delle miserie nelle soffitte metropolitane.
Non retorica è risultata la direzione di Alessandro Palumbo, giovane concertatore apparso incerto nel dosare gli equilibri e timoroso nel sollecitare ritenuti e cesure di frase. Il soprano Karen Gardeazabal in Mimì ha svolto il compito assegnatole senza gravi incidenti, ma con un registro grave non rotondo e alcune superficialità musicali. Rodolfo ha avuto la voce giunta non proiettata di Francesco Pio Galasso, che ha sostituito l’indisposto Giorgio Berrugi. Da dimenticare.
La turbolenta coppia Marcello-Musetta ha vissuto della qualità di Hasmik Torosyan, con gestualità da sciantosa e bello smalto e di quella dell’esperto e spavaldo Simone Alberghini. Enrico Maria Marabelli, nelle vesti di Schaunard ha ben figurato e l’apprezzata conoscenza sancarliana Giorgio Giuseppini ha strappato applausi nel ruolo di Colline. Hanno completato il cast Matteo Ferrara (Benoît), Enrico Zara (Parpignol), Alessandro Lerro (Sergente dei Doganieri), Rosario Natale (Doganiere) e Antonio Mezzasalma (Venditore ambulante).
Descrittivi fin troppo le scene e i costumi di Lino Fiorito illuminati dalle luci di Pasquale Mari.
In bella evidenza nel complesso il Coro del San Carlo diretto da Gea Garatti Ansini, teneramente efficace quello di Voci Bianche preparato da Stefania Rinaldi.
https://video.corrieredelmezzogiorno.corriere.it/al-san-carlo-boheme-che-canta-poesia-ultimi/2a05c7e6-1a2c-11e9-a28c-822db28ef407
Un alto esempio di critica musicale redatta con attenzione storico-materialistica e con eloqui raffinato è offerto da Dino Villatico dalle pagine di “La Repubblica”
Titolo
Faust, che diavolo
Sottotitolo
Seduttore di donne: anzi vero incubo.
E degli uomini: e quindi succubo. Torna il capolavoro di Berlioz in una versione quasi letterale. E diabolicamente vincente
Faust, come Edipo, Amleto, Don Chisciotte, Don Giovanni, è personaggio che ci appare quasi autonomo dai poeti che l’hanno immaginato, Marlowe e Goethe, quasi fosse una figura storica, un individuo in carne ed ossa.
Ciò avviene perché in lui, come negli altri personaggi, c’è una parte di ciascuno di noi: la ricerca di un senso della vita. Il diavolo, in questa ricerca, assume un ruolo determinante.
Nella tradizione medievale, e poi rinascimentale e barocca, il diavolo è un personaggio comico. Seduttore delle donne, come incubo, e degli uomini, come succubo. Michieletto prende questa tradizione alla lettera. Coloro che hanno contestato lo spettacolo — pochi, a dire il vero, e subito zittiti dalla maggioranza del pubblico, che invece ha decretato un trionfo a tutti gli interpreti — se ne facciano una ragione.
La “leggenda” di Berlioz, che utilizza, liberissimamente, la già libera versione francese che Gérard de Nerval trae dalla tragedia di Goethe (il quale, a sua volta, aveva reinventato Marlowe), riscrive le peripezie di Faust, e a differenza di Goethe, come Marlowe, lo danna. Di questa dannazione il diavolo è lo strumento insieme ironico e perversamente consapevole.
Ed è qui che Michieletto costruisce il suo spettacolo. Il mondo che devasta e perde Faust è celato dentro Faust stesso, un mondo immaginario, una costruzione del diavolo. Margherita è un sogno, a baciare Faust non è la sua bocca, ma quella del diavolo “succubo”.
Che poi, però, inserisce una mela.
Tutta la vicenda assume una connotazione di sofferenza reale: la disperazione per il fallimento della propria vita, per le perdite immedicabili, del padre, della madre, dell’infanzia felice, dell’adolescenza infelice, sbeffeggiata e usurpata dai bulli.
Ma poco importano la felicità e l’infelicità di ciò che s’è perduto, importa invece l’irrecuperabile perdita, lo stesso dolore si fa nuovo dolore nella perdita. Le scene geometriche, luminose, di Paolo Fantin. i costumi semplici, ma fantasiosi di Carla Teti, i video, le luci, i figuranti e mimi, sono perfetti.
Alla bellezza dello spettacolo corrisponde l’intelligenza e la penetrazione musicale di Daniele Gatti, l’adesione struggente della musica alla scena.
Colpisce poi e affascina l’immediatezza della recitazione, l’adeguamento al personaggio di ciascuno degli interpreti: il giovane Faust di Pavel Černoch, l’imprevedibile, duttilissimo Mefistofele di Alex Esposito, un diavolo mercuriale, l’intensità mimica e musicale di Veronica Simeoni, Margherita. Un vero giullare il Brander di Goran Jurić.
L’orchestra, il coro di diavoli e di angeli (sono la stessa cosa), onnipresente sugli spalti di un terrestrissimo inferno, completano magnificamente uno spettacolo imperdibile.
Dino Villatico
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Un lettore attento ravviserà un approccio analogo alla recensione dei due critici delle due principali testate italiane; in entrambi il metodo di analisi sia del contesto, che della trama che della lettura registica è di tipo storico-materialistica, un criterio che, mutuandolo direttamente da Karl Marx, Arnold Schönberg introdusse nella musicologia.
Due scritture fluide dalle penne di chi non si preoccupa di dimostrare, ma di informare e al tempo stesso di trasferire emozioni e di chi, pur possedendo conoscenze musicologiche dettagliate, evita di sfoggiarle, consapevole che un dotto particolare sulla partitura interromperebbe il fluire di uno scritto che, pur con i noti limiti di brevità, aspira ad essere arte che parla di arte. Forse il solo modo per poter parlare di musica.